Sangue sul Tevere, storie di serial killer, valige e canari
Cesare Serviatti, Vincenzo Teti, lo squartatore del ’76 e Pietro De Negri. Quattro personaggi, quattro storie che partono letteralmente su un treno del lontano 1932 e arrivano al 1988, sepolte nella memoria collettiva di un’unica città e di un unico testimone: Roma e il suo cuore, il Tevere, il fiume che le fa da cintura, scorrendo ora sottile, ora grosso, e ancora nero come un’ombra, rosso come il sangue.
E infatti “Sangue sul Tevere, storie di serial killer, valige e canari” (Sovera Edizioni, 270 pagine) è il titolo del quarto libro del giornalista investigativo Fabio Sanvitale e dell’esperto in scena del crimine Armando Palmegiani, che, con la collaborazione del criminologo Vincenzo Mastronardi, con la meticolosità e le intuizioni dell’investigatore e le suggestioni del narratore rispolverano verbali, perizie, interrogatori e memoriali ricostruendo e rischiarando ciò che non emerge dalle sentenze: errori, interpretazioni, storie personali, contesti sociali. Perché, come Sanvitale e Palmegiani ci hanno abituati con i precedenti lavori, non sempre la storia consacrata dai tribunali e registrata dalla cronaca incarna la verità. A volte ciò che viene consegnato al ricordo e agli archivi segue un altro percorso, un budello di strade che si strozzano e si attorcigliano su se stesse e rimane nell’ombra, silenzioso e insignificante, sino a che qualcuno non decide di riprendere tutto in mano e svolgerlo, ridandogli voce e importanza.
Come nel caso di Pietro de Negri, Er Canaro della Magliana, la cui vicenda ha attraversato gli anni obbedendo alle regole dell’affabulazione giornalistica che ha riportato ciò che era più appetibile, più d’impatto, confondendo realtà e fantasia, i dati oggettivi presenti già solo nella perizia del medico legale, Dottor Arcudi, base da cui iniziare a rileggere storia e protagonisti, e il memoriale scritto da De Negri stesso. Febbraio 1988, a cavallo tra Magliana e Portuense. Quella periferia romana in bianco e nero che Pasolini ha immortalato in una passeggiata di Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini, nel 1965: un campo sterminato, terreni brulli che si alternano ad altri coltivati, l’Eur, sullo sfondo, si fonde con l’orizzonte. E il cortiletto che sarebbe stato del Canaro a poche centinaia di metri di distanza. Un grumo di baracche costruite sotto il livello del Tevere, poi la speculazione edilizia, la cementificazione, l’emarginazione. Servizi scarsi se non assenti, viali di siringhe tra l’alienazione dei palazzi tutti uguali, le luci della capitale lontanissime. La vita si imparava per strada, come i ruoli, come a farsi rispettare. Ed è una storia di ruoli, quella del Canaro: una vittima, Giancarlo Ricci, che verrà ritrovato cadavere in un terreno sulla Portuense con le braccia legate e dato alle fiamme, ventottenne ex pugile, spacciatore violento e prepotente e un carnefice, Pietro De Negri, tosacani al Mambli, un locale in via della Magliana 253, sagoma anonima dall’io grandioso che un giorno ha ceduto ai propri fantasmi, al germe del risentimento e del rancore e attraverso l’omicidio ha vendicato anni di soprusi e violenze. Prevaricazione da un lato e passività e impotenza dall’altra. Un aguzzino da temere ma, forse, da ammirare al punto da difenderlo per un “colpo” andato a male, portando De Negri in galera per diversi mesi al posto del vero colpevole. Una volta fuori, nessuna “riconoscenza”, nessun risarcimento, nessun bottino da dividere anzi, altre angherie, altre derisioni. Ecco che allora i rancori soffocati urlano, trovano voce in un pomeriggio di cocaina, follia, sogni di rivalsa e violenza. Tanta violenza. Quella raccontata per anni seguendo il flusso narrativo e mentale di un assassino che si muoveva sotto gli effetti della droga e dell’adrenalina, senza più la misura del tempo e la cognizione delle proprie azioni, quello che il Professor Mastronardi definisce uno stato di “coscienza crepuscolare”, uno “stato modificato di coscienza in cui ciò che è fantastico è come se fosse realmente avvenuto”, (…) tanto che “le escissioni sul Ricci sono senz’altro avvenute post mortem mentre De Negri è convinto del contrario al punto che quando gli viene contestato si infuria contro i medici legali”. Non sei ore di sevizie, benzina, ferite cauterizzate, mancamenti, rinvenimenti, dialoghi e insulti. Ricci impiegò meno di un’ora per morire. Il resto, fu un memoriale con la versione spettacolare di un pomeriggio di sangue e fuoco e una verità da rileggere in una perizia.
Una cornice è una struttura che conta quattro parti. La storia di Ricci e De Negri è una. La seconda, è quella di Cesare Serviatti, l’uomo che sfruttando il vecchio trucco degli annunci matrimoniali sul giornale uccise e depezzò tre donne, vittime della propria solitudine e ingenuità prima ancora che del “Landru italiano”, quell’Henri Landru, il Barbablu parigino, che agli inizi del secolo scorso si fingeva vedovo benestante alla ricerca di donne sole e ricche da raggirare salvo poi strangolarle e bruciarle nella stufa spargendone le ceneri nei campi.
Tre donne sole, depresse, chi vedova, chi con problemi di salute. Tutte, però, con qualche risparmio da parte e la voglia, il bisogno, di credere alle promesse di Cesarino.
1928, Pasqua Bartolini, vedova, fatta a pezzi e gettata in un pozzo nero. Un omicidio talmente cruento che costò a Serviatti l’amputazione del pollice.
1930, Beatrice Margarucci, appena rientrata dagli Stati Uniti con 8.500 lire di risparmi e poi cameriera presso una famiglia nel quartiere di Trionfale. Del suo corpo vennero ritrovate solo le gambe: una sul litorale di Ostia e l’altra sulla spiaggia di Santa Marinella, poco distante da Roma.
1932, Paola Gorietti, anche lei cameriera, il ritrovamento del suo cadavere, diviso in tre valige abbandonate su due treni, fece partire le indagini e arrivare al nome di Serviatti e agli altri suoi omicidi. Non ci sono vendette, rancori o passioni in ciò che guida la mano dell’ex infermiere di Subiaco, provincia romana. Ci sono solo l’avidità e tre chili di segatura, carta da giornale, un coltello da cucina e “nessuna fatica. Una donna morta si taglia facilmente, in un’ora al massimo tutto è già spacciato”.
Il giorno della sua condanna a morte, seimila persone assistettero in silenzio all’esecuzione.
Un altro pezzo di cornice, a bordare questa tela con Roma e il suo fiume, immagini, simboli di un destino comune, fatale e irreparabile.
Sono i giorni dello sbarco sulla luna, è il luglio del 1969 e il Tevere restituisce la testa mozzata di un uomo. Qualche giorno più tardi, un braccio. Passano altri giorni e in un canneto vicino Ponte Marconi in direzione Eur, uno stracciarolo ritrova, avvolti in sacchi di plastica e juta, i corpi fatti a pezzi di Teresa Poidomani, prostituta poco più che trentenne e madre di due figli, e di suo marito Graziano Lovaglio, pregiudicato e nullafacente.
Con Palmegiani rileggiamo attentamente i sopralluoghi e sfogliamo i giornali dell’epoca, andiamo sul luogo del ritrovamento vediamo cosa fece allora e cosa farebbe oggi la Scientifica, come si procede nell’identificazione di un cadavere, cosa è e dove porta l’entomologia forense, che in quegli anni era solo un’intuizione. Entriamo sulla scena del crimine, l’appartamento dove, al numero 51 di via Cutilia, abitava la coppia. E dove Vincenzo Teti arrivò insieme a Lovaglio e dove dormì con i loro bambini, la notte in cui uccise lui e sua moglie con un coltello da trenta centimetri a lama seghettata.
Il Tevere continua a scorrere, portare via, nascondere, restituire.
Scivola via riconsegnando anche quei ricordi che diventano l’ultimo pezzo della cornice. È Sanvitale a richiamare due ritrovamenti che si perdono alla foce del fiume tra il 1975 e l’anno successivo: una gamba con dei sanpietrini attaccati e un teschio. Ma il Tevere, questa volta, tiene per sé la verità.