Religiosità e libertà
Il fenomeno religioso costituisce una dinamica umana particolarmente complessa e delicata, compresi i suoi derivati “scismatici”; da cui poi si formano nuovi gruppi con “nuove” idee religiose, spesso con modalità sincretiste. Quale possa essere la giusta definizione di strutture religiose di questo tipo è spesso motivo di controversie. Ancora si dibatte tra termini come “setta”, “culto” o “nuovo movimento religioso”. La denominazione “Nuovi Movimenti Religiosi” (NMR), oggi spesso usata, comunque, non è priva di difficoltà, perché può dare l’idea di ascrive al concetto di “religione” ciò che di per se non lo è; inoltre è difficile affermare cosa si intenda per “nuova religione”, considerando che ormai in Italia, da oltre cento anni, operano alcuni cosiddetti “nuovi movimenti religiosi” che sono accusati di praticare tecniche scorrette di manipolazione mentale. Quindi, anche se i “nuovi movimenti religiosi” ‑ secondo Cecilia Gatto Trocchi (2000) ‑ si possono classificare in base a tre elementi: le origini storiche, il contenuto dottrinale, le modalità di organizzazione; orientarsi in questo “mondo caleidoscopico e bizzarro” è estremamente difficile. Come è difficile identificare la natura di certi “nuovi culti” e la loro eventuale potenzialità distruttiva.
Una maggior chiarezza si può ottenere indagando velocemente i lessici sopra indicati. Per esempio, la parola “setta”, deriva dal latino secta: “partito, scuola, fazione”, forse derivante da secare: “tagliare, staccare”, o di sequi: “seguire”, e iniziò ad indicare quei gruppi che si erano separati da una struttura più vasta. Il Vocabolario della Lingua Italiana Zingarelli (1970) riporta così il termine: secta, “parte, frazione”; che sta a indicare un «gruppo di persone che professano una particolare dottrina politica, filosofica, religiosa in contrasto o in opposizione a quella riconosciuta o professata dai più».
Margaret T. Singer afferma che il termine setta non è, in sé, peggiorativo, ma semplicemente descrittivo: «denota un gruppo che si forma intorno ad una persona che afferma di avere una missione o una conoscenza speciale, che verrà condivisa con chi declinerà la maggioranza delle decisioni a quel leader autoproclamato». Per il Dizionario di Antropologia, Zanichelli (1997) «i membri di una setta tendono a considerarsi i “veri credenti” e a salvaguardare la differenza con gli altri credenti». Per “Setta” quindi si indica un insieme di persone guidate da un leader carismatico e totalitarista che danno forma a un gruppo chiuso ed elitario. Setta è sicuramente il termine più usato, sia a livello popolare che dai media. E anche se nel tempo ha assunto una connotazione negativa di per se, nella pratica, il fatto di professare un’idea politica o religiosa diversa dalla maggioranza rientra nel diritto costituzionale di libertà di espressione. Diritto garantito in tutti i Paesi democratici.
Gli studiosi anglosassoni privilegiano la dizione “Culto” nell’analisi del fenomeno in questione, ritenendolo più idoneo anche se i suoi confini dottrinali e ideologici sembrano essere più vaghi. Termine anch’esso derivante dal latino cultu, nel senso di “coltivare”, ovvero: «Complesso delle usanze e degli atti per mezzo dei quali si esprime il sentimento religioso» (Zingarelli, 1970). Quindi il culto si esplicita attraverso una serie di azioni che nel suo insieme stabiliscono gli usi e le credenze degli affiliati. Sono dunque, secondo questa accezione, i comportamenti, le azioni del leader e degli affiliati che definiscono il tipo di culto, ovvero se questo è lecito o distruttivo.
Alcuni studiosi del settore, definiscono così un culto distruttivo: un qualsiasi gruppo nel quale ‑ senza tener conto di ideologia, dottrina, credo – si pratica la manipolazione mentale, da cui risulta la distruzione della persona sul piano psichico (a volte fisico, spesso finanziario), della famiglia, del suo entourage e della società, al fine di condurla ad aderire senza riserve a partecipare a un’attività che attenta alla libertà di pensiero e di azione. Un culto “distruttivo” si distingue, pertanto, da un normale gruppo sociale o religioso principalmente per il suo ricorrere all’inganno, allo scopo di attrarre o trattenere al suo interno gli adepti (Hassan S., 1999, Santovecchi P., 2004).
Prediligendo questa dizione, pertanto, per culti “distruttivi” o “abusanti” si intendono quei gruppi che sistematicamente danneggiano i propri membri con l’uso di tecniche ingannevoli, non dichiarate ‑ quale il controllo mentale ‑ in violazione di diritti primari riconosciuti dagli ordinamenti più avanzati; i quali precisano la nozione di “diritto umano”.
Incidenza del fenomeno
“Un crescente allarme sociale”. Così il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni nel suo rapporto “Sette religiose e nuovi movimenti magici in Italia” definiva il fenomeno del proliferare di gruppi religiosi o pseudoreligiosi che hanno caratteristiche tali da rappresentare veri e propri pericoli per la libertà personale e la salute dell’individuo, la proprietà, l’educazione e le istituzioni democratiche. A distanza di quindici anni il monito, oggi, è più che mai attuale.
Siamo nel febbraio 1998, Giorgio Napolitano è ministro dell’Interno, il Rapporto, di circa cento pagine, nella presentazione iniziale dichiara: «A fronte del crescente allarme sociale, si è quindi ravvisata la necessità di esaminare il fenomeno e verificare la correlata esistenza di un concreto pericolo per l’ordine e la sicurezza o di eventuali altri aspetti di interesse ai fini di polizia». Pur tenendo presente l’articolo 8 della Costituzione secondo cui “tutte le confessioni religiose sono libere di fronte alla legge”, ricorda la necessità che i rispettivi statuti, di dette confessioni, sempre in base allo stesso articolo, “non contrastino con l’ordinamento giuridico”.
Il Rapporto è frutto di una ricerca che si basa “sulla scorta di testimonianze prestate da molti fuoriusciti, ma anche da accertamenti condotti da organi di polizia giudiziaria”. Gli aspetti che, secondo il Ministero degli Interni, costituiscono un pericolo “per la convivenza civile” e sui quali è necessaria una verifica sono:
- L’utilizzo, allo scopo di reclutare nuovi seguaci e mantenere “quelli già caduti nella rete”, di meccanismi subliminali di fascinazione e del cosiddetto “lavaggio del cervello”, o altri consimili metodi atti a limitare la libertà di autodeterminazione del singolo.
- L’interesse materiale dei capi carismatici che si realizza attraverso l’esazione di contributi, condotte con metodiche aggressive, e la vendita di merci e servizi vari.
- Il celare, dietro un’apparenza talora rispettabile e al di là dei fini dichiarati, comportamenti immorali o condotte illecite.
- La propugnazione di dottrine, connotate da elementi fortemente irrazionali, che potrebbero obnubilare gli adepti e spingerli a comportamenti devianti e pericolosi per la sicurezza pubblica.
- Il perseguimento di obiettivi diversi da quelli dichiarati, se non addirittura di piani eversivi o destabilizzanti dissimulati dal pretesto religioso”
Dal 1998 di censimenti ufficiali non ne sono più stati pubblicati anche perché tanti sono i limiti ‑ ammessi dallo stesso Ministero ‑ che impediscono una stima oggettiva del fenomeno.
Prima cosa, non tutte le azioni biasimevoli commesse dai sopraindicati “culti distruttivi” arrivano in tribunale venendo sottoposte a giudizio. I giudizi richiedono infatti che la persona che ha subito un danno ne sia cosciente, che prenda sufficiente distanza dalla setta e decida poi di sporgere denuncia. Passi che risultano in genere tutt’altro che automatici.
C’è poi l’eterogeneità delle fonti da cui è possibile attingere informazioni, che sono i movimenti stessi, i loro fuoriusciti, i mezzi di comunicazione e gli studiosi della materia.
Altro problema è la fluidità delle cifre. Un conto è prendere in considerazione i soli “movimenti” con una certa diffusione sul piano nazionale e internazionale, altro è includere nel computo anche le formazioni di carattere localistico o i piccoli gruppi con poche decine di affiliati.
Infine occorre non dimenticare che certi culti nascono, muoiono, si scindono e generano a loro volta altre diramazioni con una frequenza incontrollabile. Tanto è vero che acquisire una stima certa della reale consistenza di questi gruppi e dei loro affiliati non è di facile risoluzione.
Percezione del pericolo sociale
Spunto che ha sempre alimentato ampie discussioni, è la discriminante fra il lecito e l’illecito che caratterizza simili strutture. Dove finisce il gruppo e dove inizia la setta? Dove finisce la comunità e inizia la coercizione mentale, il condizionamento e l’abuso?
Un segnale chiarificatore si può trovare nel continuo aumento di posizioni critiche, di racconti di esperienze vissute all’interno di determinati culti e nelle difficoltà degli aderenti a lasciare il gruppo senza subire danni alla propria dignità, o essere oggetto di atteggiamenti persecutori al limite della legalità. Inoltre, cresce il numero delle famiglie disgregate perché uno dei congiunti è diventato un adepto. Il problema dunque è presente, concreto e allarmante.
Pur mantenendo il rispetto per il principio di laicità della Repubblica, il rispetto per l’Articolo 8 della Costituzione e dell’Articolo 9 della Convenzione Europea sui Diritti Umani che garantiscono la libertà di coscienza e di religione, non possiamo nascondere che qui siamo di fronte a culti che vanno ben al di là della legge e del rispetto dei diritti umani. Motivo per cui l’Europa si è interrogata davanti al fenomeno dei culti abusanti. L’ultima Raccomandazione del Parlamento Europeo, che risale all’ormai lontano 22 giugno1999, ribadisce la necessità di passare a un vaglio critico i gruppi sedicenti religiosi e le loro prassi. Si richiede perciò di istituire un Osservatorio Europeo sui gruppi di natura religiosa esoterica o spirituale[1].
Il rapporto Cottrell, del 1984, è primo Rapporto del Parlamento Europeo sulle Sette. Studio, in seguito, presentato da Sir John Hunt, il 29 novembre 1991, e approvato dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Il 5 febbraio 1992 fu votata la Raccomandazione n. 1178, in cui si consigliava agli Stati membri di predisporre sistemi di informazione sulle attività delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. Segue la Risoluzione votata dal Parlamento Europeo il 26 febbraio 1996. Infine la Raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare del giugno 1999 che poi ha dato vita al già citato Rapporto del Consiglio d’Europa dello stesso anno. Dalle analisi dei vari Paesi, sintetizzate poi nel Rapporto 1999 del Consiglio d’Europa, emerge la constatazione di una non adeguata conoscenza del fenomeno.
Anche i singoli Stati europei hanno affrontato il problema culti abusanti. Il Rapporto della Commissione di salute pubblica nei Paesi Bassi, del 1984; il Rapporto Guyard, presentato all’Assemblea Nazionale Francese nel 1995 e pubblicato nel 1996; il Rapporto del Comitato di Inchiesta Parlamentare Belga intitolato: “Sette in Belgio” del 1997; il Rapporto del Bundestag tedesco del luglio 1997; il Rapporto svizzero sulle sette, intitolato: “Le sette o i movimenti indottrinanti in Svizzera. Necessità di un intervento dello Stato”, del febbraio 1997. Nel 1999 sempre la Germania dimostra la propria sensibilità alla questione con il Rapporto Keltsch. A questi si aggiunge il già citato Rapporto italiano del Ministero degli Interni del 1998. Inoltre, anche il Gran Bretagna, l’Austria, la Spagna, il Portogallo, la Norvegia hanno affrontato la problematica dei culti abusanti.
Questi Rapporti, nel loro complesso, sottolineano “la necessità di rispettare il principio di libertà di religione”, ma nello stesso tempo richiamano l’attenzione sul fatto che “alcune di queste organizzazioni compiono atti di natura illecita o criminale e violano i diritti dell’uomo”. C’è, nel suo insieme, il riconoscimento che esiste poca giurisprudenza sulle sette, anche se nei singoli Paesi ci sono stati casi di procedimenti legali nei confronti di culti. L’invito è di non emanare leggi speciali per le sette, per evitare definizioni o classificazioni che “costituirebbero una violazione dell’Art. 9 della Convenzione Europea sui Diritti Umani”. Trappola in cui i culti abusanti vorrebbero far cadere gli interventi degli ordinamenti statali. Tuttavia gli Stati devono operare un controllo, giacché la libertà religiosa non è illimitata, come invece sostengono alcuni gruppi che “vorrebbero godere di una totale libertà di azione sotto la copertura della loro fede”. La tutela della libertà religiosa delle minoranze, quindi, non deve “prescindere dal rispetto della libertà religiosa del singolo individuo”. Per questo, il Rapporto del Consiglio d’Europa (1999), raccomanda gli Stati membri «a non rendere automatica la concessione dello statuto religioso e a considerare, nel caso di sette implicate in attività clandestine o criminali, l’opportunità di togliere loro lo statuto di comunità religiose che conferisce vantaggi fiscali e una certa protezione giuridica».
In particolare, il Rapporto, dedica un intero capitolo alla “minaccia che le sette possono rappresentare per i minori”.
Tra gli emendanti proposti il Comitato approvò che:
- La frequenza scolastica è vitale per i minori, se ciò non è permesso dal movimento o setta, devono intervenire le autorità competenti. Lo stesso vale quando è in pericolo la salute stessa del minore che non riceve cure adeguate.
- Si devono prendere tutte le misure necessarie per proteggere i bambini e gli adolescenti da maltrattamenti fisici o psicologici o non assistenza medica adeguata.
- Istituzione di un programma educativo che protegga contro l’indottrinamento di sette pericolose, sottolineando la necessità “di offrire adeguata preparazione a chi opera nel campo sociale per individuare i pericoli che si possono nascondere in certe sette o movimenti”.
Raccomandazione che ha indotto alcuni Sati ad approvare leggi allo scopo di prevenire e reprimere l’aspetto manipolatorio e criminoso di alcuni gruppi. Nel febbraio del 1997, la Svizzera ha inserito fra i reati quello della “manipolazione mentale”. Il Gazzettino del 22 febbraio 1997 ha riportato la notizia nell’articolo “La ‘manipolazione mentale’: un vero reato”. In esso si legge: «Nella sola Svizzera e nella vicina Alta Savoia almeno 65 persone hanno perso la vita negli ultimi due anni ad opera dei seguaci della setta denominata Ordine del Tempio Solare. In un meditato e pionieristico decalogo che potrebbe servire da base di partenza anche per altri Paesi, gli esperti elvetici propongono per la prima volta una serie di misure sociali, educative, fiscali e giuridiche volte a contrastare il perverso potere di quelle sette che, con sistemi subdoli che possono arrivare fino all’ipnosi, collezionano adepti da ‘manipolare mentalmente’ per i loro scopi di lucro». Coglie la palla al balzo la vicina Francia tre anni dopo. L’Assemblea Nazionale Francese, nel giugno 2000, ha approvato una legge sulla prevenzione e la repressione dei groupes sectaires. Il fulcro di tale intervento legislativo si sostanzia nella creazione di una nuova fattispecie criminosa: il delitto di “manipolazione mentale”. Ovvero la possibilità di sussumere, di stringere nella maglie della tutela penale il concetto di manipolazione mentale, di abuso, sfruttamento dell’altrui debolezza o dipendenza psicologica posta in essere nell’ambito di esperienze settarie religiose o pseudo tali. La norma in esame, secondo il testo elaborato dal deputato Catherine Picard, punisce con la reclusione sino a sette anni e con la multa di 5mila franchi francesi (Padovani C. 2000). Nel citato rapporto Rapport Guyard, dal nome del deputato relatore, vengono sintetizzate le caratteristiche del culto abusante: «una dottrina che coinvolge l’intera vita di una persona; un sistema comportamentale onnipervasivo che si impone quale elemento di rottura con i valori e le abitudini di vita ordinari, fede cieca in un leader carismatico a cui spesso vengono attribuiti poteri divini; alto livello di coesione della comunità; isolamento dalle persone e dalle istituzioni esterne; capacità coercitive del gruppo, stimolanti la paura di sanzioni».
Il Rapporto parla anche di opacità delle organizzazioni settarie e della loro frequente instabilità. «L’instabilità è connaturata al fenomeno settario come lo è in tutte le forme organizzative più o meno clandestine, più o meno confessabili nei loro obiettivi». Due gli ostacoli per l’analisi del loro aspetto economico e finanziario:
- Il rinnovamento dell’adesione, all’interno dei movimenti, garantito grazie alla maestria di aggregare e attirare adepti con caratteristiche anche variegate.
- Le frequenti modifiche delle direttive. Le strutture settarie dimostrano una sconcertante disinvoltura al trasformismo, al fine di eludere i controlli delle autorità, adattano statuti e strutture organizzative alle esigenze del momento.
Un velo di mistero circonda le attività dei gruppi. Spesso le sette presentano un’organizzazione di facciata che persegue fini apparentemente di culto: una maschera religiosa che nasconde attività lucrose di tutt’altra natura. Attività spesso celate anche agli stessi membri del culto.
Il metodo usato per condurre questa “doppia agenda” è quello del frazionamento delle attività tra diverse personalità giuridiche: periferiche e meno appariscenti, quelle lucrative, primarie e visibili quelle del culto. In realtà il fine ultimo, anche se svolto nell’ombra, è quello economico: esso esiste e prospera proprio grazie al paravento religioso. Anche quando essi si danno una struttura commerciale dichiarata e distinta dal culto allo scopo di organizzare corsi a pagamento, vendere libri, oggetti o servizi vari, sono gli adepti che per la maggior parte portano avanti gli interessi del culto mantenendo legami anche finanziari strettissimi.
Altro determinate fattore da tenere presente è il frequentissimo ricorso del culto all’attività di volontariato. Attività spesso ottenuta con l’inganno o con pressioni psicologiche. Come del resto le cosiddette “offerte volontarie”. L’attività lavorativa, “volontaria” e quindi non retribuita, assieme alla non prevista copertura previdenziale, unita all’introiti delle “offerte o donazioni volontarie”, realizzano un business “religioso” formidabile: il tutto esente da controlli fiscali diretti. Complice involontaria, spesso, la legislazione di molti Stati che prevede uno statuto fiscale privilegiato per le associazioni religiose.
Anche il Rapporto svizzero ha prodotto i suoi effetti. Pur sottolineando la scarsa capacità di servizi specializzati, afferma che «molti gruppi provocano volontariamente questa mancanza di trasparenza non fornendo alcuna informazione pubblica, dando al mondo esterno un’immagine falsata della propria organizzazione reale o cambiando regolarmente la propria apparenza. Alcuni gruppi appaiono intenzionalmente sotto una forma camuffata. Questo comportamento è talvolta già radicato nella dottrina professata dal gruppo: le idee principali sono accessibili solo a una cerchia di persone iniziate; sono trasmesse solo oralmente in una cerchia chiusa di persone iniziate; sono soggette a sanzioni se è violata la segretezza. Tali gruppi fanno uso di un alone di mistero». Inoltre ribadisce «Qualora vengano impiegati metodi ingannevoli, fallaci o indottrinanti, la “rinuncia” parziale o totale all’autodeterminazione non riguarda più soltanto la singola persona ma anche lo Stato che può e deve intervenire, sempre che ne abbia la possibilità. Dato che non soltanto la legislazione civile e quella penale, bensì anche le democrazie poggiano sull’assioma dell’autodeterminazione responsabile, nemmeno lo Stato di diritto, per quanto liberale, può assistere senza reagire all’azione di gruppi indottrinanti che sistematicamente annientano o tentano di annientare l’autonomia delle singole persone».
Adesso sia in Francia che in Svizzera la manipolazione mentale è reato. In Europa già da oltre dieci anni è stato dichiarato “urgente e preoccupante” il fenomeno di culti che esercitano un controllo psicologico e fisico sui loro adepti. Le cronache, sempre più spesso, riferiscono di situazioni di completo “controllo mentale” e di violenze su donne e bambini, all’interno di culti estremi. L’incidenza e l’allarme sociale che essi suscitano rendono necessario riflettere sulla necessità anche in Italia di una legge che regoli i rapporti tra culto e affiliato.
Negli ultimi decenni i culti distruttivi sono cresciuti a dismisura ed è oramai comunemente riconosciuto che l’abrogazione del reato di plagio, operata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 8 giugno 1981, non ha risolto la questione penale sottesa al fenomeno. A distanza di oltre trent’anni è avvertita, infatti, oggi più che allora, la necessità di approntare un’idonea tutela contro i subdoli e devastanti attacchi alla libertà psichica e morale dell’individuo. È necessaria una nuova definizione del rapporto fra il plagiato e colui che opera subdolamente una persuasione occulta. Non si tratterebbe di entrare in merito alle dottrine, ma di sanzionare quei comportamenti lesivi alla dignità e alla libertà individuale. In sostanza fare emergere la concreta realtà della patologia dei culti abusanti, più o meno sottaciuta per ignoranza o per comoda rimozione, affinché si imponga alla coscienza collettiva e non si sottragga alla disapprovazione sociale, che è la primaria forma di controllo e di contrasto (Mantovani F., in Bini C., Santovecchi P., 2005).
I milioni di persone in Italia che hanno a che fare con la realtà dei culti totalitari, tutto ad un tratto si trovano scagliati davanti a problemi che non avevano mai conosciuto prima, che non sanno come affrontare e come contrastare e, qualora volessero, non hanno gli strumenti adatti. È questo il punto nevralgico. L’esistenza o meno del plagio in campo religioso o politico/sociale con le sue implicazioni di natura psicologica/psichiatrica, o politico/legislativa e di conseguenza giuridico/penale.
C’è chi nega in assoluto l’esistenza del plagio e chi ritiene il plagio una prassi comune. C’è chi, partendo dal principio dell’inviolabilità della coscienza individuale, sostiene che qualsiasi limitazione nei riguardi di persone e gruppi religiosi sia in ogni caso lesiva del diritto fondamentale di libertà religiosa.
Infine esiste un movimento di opinione che intende promuovere una legislazione più adeguata e più attuale che tuteli la libertà di religione dei cittadini, sia come gruppi che come individui, attraverso la formulazione di una legge-quadro sulla libertà religiosa, e la reintroduzione nel codice penale del reato di manipolazione mentale.
La situazione giuridica italiana
La Corte Costituzionale, con la sentenza 8 giugno 1981, n.96, rilevando un contrasto tra l’articolo 603 del codice penale «Chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni» e gli articoli 21 e 25 della Costituzione, dichiarò la illegittimità della norma che configurava il delitto di plagio, ponendo così termine all’esistenza di una disposizione che nel cinquantennio del Codice Rocco non aveva trovato frequenti occasioni di applicazione. Si legge nella sentenza: «La norma denunciata viola il principio di tipicità di cui all’articolo 25 della Costituzione, in quanto appare sfornita nei suoi elementi costitutivi di ogni chiarezza». Legge che lasciava, sempre secondo la Corte Costituzionale, troppo spazio non solo alla discrezionalità, ma addirittura all’arbitrio del giudice.
Ora non si intende rimettere in discussione, a tanta distanza di tanto tempo, le decisioni della Corte Costituzionale, che rappresentano ormai un punto fermo e immodificabile nel nostro ordinamento giuridico, ma soltanto chiarire che l’abrogazione del reato di plagio, non voleva certo significare la sua insussistenza e l’annullamento delle problematiche inerenti ai processi di condizionamento psicologico che si realizzano, anche e soprattutto, nel tipo di relazione che intercorre tra adepto e leader carismatico. Tant’è che la Corte Costituzionale ne raccomandò la riformulazione in termini più precisi. Motivo per cui, l’abrogazione, non può essere intesa come la negazione del plagio sul piano fenomenico (Di Bello M., in Bini C., Santovecchi P., 2005).
Diversi senatori e parlamentari della Repubblica, di differenti schieramenti politici, consapevoli che il sistema giudiziario italiano non possiede strumenti adeguati per contrastare chi, utilizzando “meccanismi subliminali di fascinazione”, limita la libertà di autodeterminazione, hanno presentato dei disegni di legge per la reintegrazione del reato di plagio. Anche se sotto la dicitura, forse più moderna, di reato di “manipolazione mentale”. Fino ad oggi nessuna delle proposte di legge è stata approvata.
Il vuoto normativo lasciato dalla sentenza della Corte Costituzionale, ha da un lato, comunque, creato nell’opinione pubblica la falsa convinzione che il plagio non esista, dall’altro ha dato la possibilità ai “manipolatori della mente” di usare e rafforzare le loro tecniche in tutta tranquillità, sapendo con assoluta certezza di non correre alcun rischio legale. Ciò spiega l’espandersi in Italia di attività di singoli e/o organizzazioni di potere, anche mascherate da pratiche religiose, che continuano a perpetrare in maniera dilagante meccanismi persuasivi occulti.
Da più parti ci sono stati tentativi di assimilare il plagio alla circonvenzione di incapace. Quindi, è bene ricordare che il reato di plagio, nella specifica formulazione, presupponeva un totale ed illimitato stato di soggezione, tanto che si qualificava nei delitti contro la persona. Ovvero tra i delitti contro la libertà individuale e in particolare tra i delitti contro la personalità individuale, al pari della riduzione in schiavitù, della tratta, del commercio, dell’alienazione e acquisto di schiavi. Mentre la circonvenzione di incapace rientra tra i delitti contro il patrimonio. In particolare, tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, al pari della truffa, dell’insolvenza fraudolenta, dell’usura, dell’appropriazione indebita, della ricettazione etc.
La necessità di distinguere i diversi ambiti in cui si realizzano le condizioni di soggezione psichica, tenendo conto delle situazioni di danno concreto che ineriscono alle dinamiche plagiarie, è quella di accogliere l’esortazione della Corte Costituzionale. Essa nel lamentare la violazione dell’articolo 25 della Costituzione ribadì più volte che, alla base del principio invocato, stava in primo luogo «l’intento di evitare arbitri nell’applicazione di misure limitative di quel bene sommo e inviolabile costituito dalla libertà personale e che, per effetto di tale principio, onere della legge penale fosse quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l’interprete, nel ricondurre un’ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da un fondamento controllabile».
Il nodo della questione sta nel fatto che l’idea di libertà di religione è legata all’idea di libertà personale, e come abbiamo visto, queste due idee di libertà presentano molti aspetti contrastanti: da una parte la libertà di pensiero è un diritto inalienabile dell’uomo, ma dall’altra un abuso di tale libertà spinge l’individuo verso l’irresponsabilità che sfocia nella limitazione della libertà altrui. La conseguenza è che molti gruppi o singoli, attraverso la persuasione illecita, attentano ogni giorno alla integrità psichica di altri esseri umani privandoli della loro unicità e del loro libero arbitrio, commettendo un delitto gravissimo che per ora rimane impunito.
Il giusto confine tra libertà e liberticidio dà vita ad una sfida etica che attende, è vero le nostre istituzioni, ma che ci ricorda che in una democrazia la scelta pesa anche su ognuno di noi. Dice Hugo Stamm: «Osservati rigorosamente, le ambizioni e i sistemi delle sette non si possono conciliare con uno Stato di diritto democratico. Se le sette e i gruppi totalitari fossero tutelati e le loro dottrine di salvezza dichiarate come religione di Stato, nascerebbero in ogni caso dei regimi dittatoriali. La loro “verità” non è condivisibile né riformabile; essa è sola e unica, e deve essere diffusa fin nei dettagli nel mondo stabilito. Nel regno dell’Assoluto non c’è spazio per cultura e visioni personali, la vita soffoca sul nascere. Un insegnamento dimostrativo è offerto dai regimi fondamentalisti islamici, nei quali le guide religiose sono contemporaneamente i sovrani terreni. Il tentativo di costruire lo Stato di Dio conduce inevitabilmente alla sottomissione e all’indottrinamento della popolazione». (Stamm H., 1997). A queste parole fanno seguito quelle dell’avvocato Michele Del Re: «resta che si deve evitare, anche col mezzo della repressione penale, che la programmazione etica, il condizionamento psichico divengano un’arma per possedere schiavi, pronti a difendere il padrone fino alla morte, perché li ha privati della torturante angoscia che è la libertà» (Del Re M., 1982).
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[1] Con l’intento di rispondere a questa Raccomandazione, in Italia, nel 2003, è stato istituito l’Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici (O.N.A.P.) che, «prendendo atto dell’ampia diffusione in Italia di gruppi rispondenti a detta descrizione, vuole essere una struttura nazionale che si adegui alle esortazioni europee. Motivo per cui, fra i suoi compiti, intende anche esercitare un’opera di prevenzione nei confronti di tecniche manipolatorie di controllo mentale messe in atto da culti pericolosi. Fornire informazioni accurate e obiettive. E attraverso il canale delle scuole, rivolgersi soprattutto ai giovani».