Narcisismo, noia e crimini di sangue nella «società post moderna»: riflessioni psico(pato)logiche e criminologiche
«[…] educare alla cultura e alla civiltà significa creare legami sociali e legami di pensiero. E solo in un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione si è in grado di sviluppare legami e produrre qualcosa di diverso dal disastro, evitare che accada la trasformazione dalla minaccia del disastro alla promessa del disastro»
Benasayag & Schmit, 2003
Cenni introduttivi sulla «post-modernità»
Le trasformazioni della società nel passaggio dalla modernità alla c.d. «post-modernità» hanno determinato grossi cambiamenti nella vita sociale, con inevitabili ripercussioni non solo a livello sociologico e antropologico, ma anche rispetto alle forme di manifestazione del disagio psichico, per cui ogni considerazione psicopatologica sull’individuo separata dal campo delle relazioni sociali è assolutamente insufficiente per rendere le figure e le trasformazioni della psico(pato)logia del presente (Recalcati, 2010). Il postmoderno può ritenersi uno stile di vita e di pensiero che si allontana dalle idee dominanti della modernità, in modo particolare dall’idea di un’unica razionalità logico-metafisica, del progresso dell’umanità legato alla conoscenza tecnica, di un’unica verità filosofica e religiosa valida per tutti, di un universalismo della natura umana, spogliata degli imprevisti e dei cambiamenti della storia, e sottratta alle molteplici contestualizzazioni sociali e culturali della sua essenza (Sanna, 2008). La postmodernità – l’estremizzazione dei cui connotati sarebbe, secondo alcuni autori (Augé, 1996; Lipovestky & Charles (2004), transitata nella ipermodernità – consisterebbe nella dissoluzione della sintesi culturale moderna, con l’avvento del pensiero debole, della crisi della ragione e l’inserzione delle tecnologie come terzo asse di intelaiatura della specie umana, insieme al binario biologico e culturale (Galimberti, 2000).
Orbene, di fronte a questa «modernità senza illusioni» (Baumann, 2006), a questa «decadenza», intesa non nel senso di un rifiuto dei valori, quanto piuttosto dell’indifferenza ad essi, si presenta all’individuo un orizzonte culturale ed esistenziale composto dalla vicinanza e contiguità di molti frammenti che, in ultima analisi, sono difficili da catalogare e non riescono a dare una sensazione dell’ordine e del senso, ma solo quella della casualità, della provvisorietà, dell’incertezza, in cui niente diventa decisivo, in quanto «[…] le nuove condizioni di vita, dovute alla complessità dei sistemi sociali, e il conseguente allargamento dei confini, hanno prodotto un sempre più diffuso sentimento di perdita dei legami e di disorientamento, con un bisogno crescente di sicurezza e di controllo degli eventi» (Lavanco et al., 2005, 631). Le profonde e radicali trasformazioni sociali e culturali che si sono prodotte negli ultimi anni, caratterizzate da un venire meno del senso globale e unitario della realtà, della negazione della capacità umana di chiarificazione, di conferire un senso unitario alla vita umana e alla società, lo smarrimento del senso di stabilità e di sicurezza, la perdita dell’Altro come soggetto, l’incapacità di confrontarsi con le proprie emozioni a scapito della ricerca dell’eccitazione, hanno ampliato a dismisura quel processo di spersonalizzazione già iniziato con la modernità che si è riversato sulla costruzione di identità sempre più fragili, non ben delineate, camaleontiche, ovvero liquide (Rossi Monti, 2012).
É proprio partendo da questo assunto che si tende ad analizzare il divampare dell’individualismo narcisistico, l’estasi del proprio corpo e della propria liberazione personale, ovvero il «narcisismo di massa» (Packard, 2015). Il narcisismo dell’uomo ipermoderno è una forma di apatia, di profonda aridità emotiva e spirituale, dovuta alla superficiale sensibilizzazione al mondo, e di radicata indifferenza nei suoi confronti, capace di configurare una nuova realtà sociale che muove dalla sempre maggior democratizzazione del benessere, nata come conseguenza dell’economia capitalistica della produzione in serie, ma utilizzata per colmare l’assenza di una coscienza collettiva morale. Una società, quella ipermoderna, nella quale l’individuo edonista è costretto a convivere con l’indifferenza di massa e in cui l’esaltazione dei beni materiali di lusso rimane l’unico modo di nutrire il proprio ego per «sentirsi vivi» (Oliviero, 2018).
Tale iperindividulizzazione fa sì che l’individuo si faccia istituzione, collocandosi sempre più al centro delle dinamiche sociali, promuovendo nuovi valori rappresentati dall’edonismo, dall’egocentrismo, dalla centralità della performance che, se da un lato sembrano arginare l’angoscia derivata dall’idea di un futuro incontrollabile e dal vuoto lasciato dal crollo delle grandi istituzioni sociali e dei codici istituiti, dall’altra determina lo sfaldamento della trama intersoggettiva, della matrice gruppale e transpersonale, del rapporto dialettico con l’Alter (Ferraro et al., 2012): condizione, questa, foriera di nuove forme di psico(pato)logia, che trovano la loro genesi nell’incapacità di costruire una stabilità identitaria. Interrogarsi, quindi, sulla «psico(pato)logia del presente» significa riflettere su quelle particolari forme di sofferenza psichica che si esprimono nel nostro tempo, nella nostra cultura e nella nostra società e che spesso sono alla base di comportamenti violenti, anche omicidari. Eventi apparentemente inspiegabili, in essa trovano la loro radice, in quanto espressione di una particolare modalità di essere-nel-mondo, caratterizzata da dinamiche narcisistiche quale spinta motivazionale primaria che determina il soggetto a compiere l’azione delittuosa.
Condotte violente e dinamica relazionale
La violenza rappresenta un comportamento complesso e multifattoriale che si può declinare in varie forme: individuali (violenza autodiretta, dal self-harm fino al suicidio, che rappresenta la seconda causa di morte nella fascia di età 14-29 anni); collettive (criminalità organizzata, terrorismo, guerre, ecc.) ed interpersonali (abuso ed abbandono di minori, violenza giovanile, violenza tra partner, abuso di anziani, violenza sulle donne, ecc.). La violenza interpersonale agita nei confronti della componente femminile della coppia, in particolare, può estrinsecarsi attraverso varie modalità, anche tra loro coesistenti: «violenza fisica» – caratterizzata dalla minaccia di percosse fino all’essere picchiate o essere colpite con armi o altri oggetti; «violenza sessuale», in cui la vittima viene costretta a subire atti sessuali contro la propria volontà – potendo consistere sia in uno stupro vero e proprio che in un tentativo di stupro – o attività sessuali umilianti, comprese le minacce di subire violenza sessuale; «violenza psicologica», in cui vengono messi in atto comportamenti verbali e/o non verbali, miranti ad infliggere intenzionalmente sentimenti di angoscia, ma anche condotte denigratorie o umilianti dirette, oppure situazioni di controllo e isolamento, nelle quali la vittima perde la libertà e la possibilità di effettuare scelte in autonomia in diversi ambiti della propria vita; ed infine «violenza economica», indicante ogni forma di controllo e privazione che limiti l’autonomia e l’indipendenza economica della vittima, per poter mantenere un controllo assoluto ponendola in una condizione totale di sudditanza nei confronti del partner abusante (Cerisoli et al., 2016).
Il comportamento violento risulta condizionato da fattori socio-economici, ambientali, culturali ed individuali, che afferiscono sia alla vittima[1] sia al perpetuatore dell’azione violenta. Riguardo a quest’ultimo, in particolare, è stata riscontrata una correlazione statisticamente significativa con fattori quali essere giovani maschi, con instabilità residenziale e lavorativa, avere una storia di abuso di alcol e stupefacenti, esperienze infantili di abusi fisici, genitori tossicodipendenti o criminali, vivere in un ambiente disagiato e violento (Swanson et al., 1990; Nivoli et al., 2010). La presenza di disturbi psichici, al contrario di una certa opinione comune, presenta una correlazione modesta con il comportamento violento, pur essendo presente nel caso di gravi disturbi psichiatrici come la schizofrenia o i disturbi di personalità afferenti al Cluster B (soprattutto disturbo bordeline ed antisociale di personalità) (Skodol, 1998; Nivoli et al., 1996; Cimino, 2021). È, invece, soprattutto l’abuso di sostanze stupefacenti e di alcol che, oltre a favorire la slatentizzazione di malattie psichiche, rappresenta il principale fattore di rischio di agiti violenti, particolarmente se in copresenza con disturbi psichiatrici: infatti, oltre il 65% delle violenze sembra essere riconducibile a fenomeni di abuso di sostanze psicotrope (Hodgins, 2008; Van Dorn et al., 2012; Mohit, Varshney et al., 2016).
Il ricorso a sostanze di abuso – da cui derivano la maggior parte dei comportamenti violenti e delle forme di devianza, soprattutto fra i giovani – risulta sovente espressione di un profondo disagio dovuto sia a carenze di tipo evolutivo della personalità che a situazioni sfavorevoli riconducibili al sistema sociale postmoderno, in cui l’atto aggressivo «starebbe ad indicare, almeno in molti casi, l’esistenza di un irrisolto legame di dipendenza» (Malagoli Togliatti, 1996, 99). Violenze di gruppo, sessuali e finanche omicidi (tra cui molti femminicidi[2]) sembrano assumere sempre più frequentemente significati simbolici di autoaffermazione, di ricerca di senso e di comunicazione, seppure in forme estreme e disadattive, evidenziando l’incapacità a riconoscere l’Altro come soggetto, in un vuoto esistenziale e relazionale che genera malessere e distruttività. Come acutamente evidenziato da Ciappi (2010) «molti delitti di oggi appaiono il frutto di nessuna causa […] Sono persone che nascondevano il loro male oscuro dentro di sé […]. Non valgono più le spiegazioni rassicuranti della psicologia e della sociologia. […] Si scopre dopo che dietro quei delitti c’è la noia borghese, il disagio» e che alla base di molti delitti di sangue non c’è altro che il tentativo disperato di «[…] affermare le proprie debolezze […] le inadeguatezze, le vorticose incapacità di relazionarsi con l’altro».
Ecco, allora, che la psicodinamica della relazione rappresenta l’elemento cruciale per comprendere la criminogenesi di questa tipologia di crimini (Wilson, 1972). Una relazione interpersonale funzionale appare caratterizzata dal riconoscimento delle rispettive individualità; dalla capacità di reciproca donazione e gratificazione; dalla possibilità di percorrere il processo di separazione/individuazione; dalla capacità di elaborare i lutti, le perdite e i distacchi; dalla capacità di riunire l’oggetto nella sua globalità e dal senso compiuto di identità, di libertà e di autonomia. Aspetti, questi, che, da un punto di vista dinamico, si traducono in caratteristiche quali «bilateralità», ovvero dialogo, comprensione, rispetto, indipendenza, creatività; «costanza della relazione oggettuale» e «libertà di essere sé stessi», ossia accettazione della separazione e del distacco, elaborazione del lutto.
Una relazione interpersonale disfunzionale (perversa) si caratterizza, invece, per il bisogno tirannico di gratificazioni, l’esigenza di dominio, di controllo e di risarcimenti variamente orientati; intolleranza alle frustrazioni, assenza di reciprocità e mantenimento della scissione fra oggetto buono e cattivo; convincimento di non essere un oggetto compiuto, incapacità di elaborare tutte le perdite; mancato sviluppo di una propria individualità separata e dotata di identità sua propria. Si tratta di aspetti che possono essere ricompresi nei concetti di: «unilateralità», ovvero sfruttamento dell’altro; «oggetti parziali e scissi» e «mancata esperienza di libertà di essere se stessi», che si esprime attraverso ostilità, ambivalenza, fusione o scissione comportamentale, angoscia di solitudine e infelicità (Fornari, 2014).
Ecco che alla base di molti omicidi apparentemente incomprensibili, attuati in maniera spesso impulsiva e particolarmente violenta, non si riscontra un valido movente (denaro, gelosia, potere, ecc.) se non un disperato tentativo di affermazione della propria identità frammentata e della propria insicurezza emotiva. Si uccide l’Altro per non morire, per la paura di essere dimenticati, per difendersi dalla propria debolezza, per non affrontare le proprie sconfitte, le proprie inadeguatezze, l’incapacità di riconoscere, attraverso l’Altro, se stessi (Ciappi, 2010).
L’incapacità di riconosce l’Altro struttura anche il ricorso al «disimpegno morale» (Bandura, 1986), quel meccanismo cognitivo di svincolo dalle norme che consente di mettere a tacere gli imperativi etici e di sganciare il soggetto dalla responsabilità per l’azione violenta (moral disengagement). Attraverso meccanismi difensivi come la «de-umanizzazione della vittima», la «attribuzione di colpa alla vittima», la «distorsione delle conseguenze» l’autore di reato presenta una difficoltà a maturare quel processo di responsabilizzazione, di consapevolezza critica e di rilevanza del danno prodotto nei confronti della vittima, che condizionano un valore prognostico negativo in termini di ipotesi progettuali di trattamento e di recupero sociale.
Narcisismo e noia
Sebbene non possa definirsi una «tipologia psicologica» universalmente riconosciuta caratterizzante i perpetratori di questi delitti di sangue – «delitti del vuoto», non solo perché attuati in assenza di un movente concreto, ma in quanto espressione di un malessere accidioso e di ontologica perdita di vitalità – è possibile identificare alcuni tratti di personalità frequentemente riscontrabili in questi soggetti che, in taluni casi, possono concretizzarsi in stili o in disturbi di personalità veri e propri[3]. Tra i più frequenti tratti reperibili in questi soggetti, si riscontrano (Palermo & Mastronardi, 2005): «egocentrismo», che alimenta comportamenti egoistici fino al desiderio di controllo, scarsa empatia e scarso rimorso; «impulsività», in cui le azioni, non meditate, sono la risultante di una improvvisa, transitoria e parziale esperienza di volere, scegliere e decidere (Schapiro, 1965), che condiziona condotte e atteggiamenti sovente caratterizzati da una carenza di pianificazione e riflessione – il soggetto impulsivo ha emozioni superficiali, è scarsamente empatico, sfrutta le situazioni incurante delle conseguenze, essendo interessato esclusivamente alla propria immediata soddisfazione – «ossessività compulsiva», caratterizzata da un pensiero rigido, dogmatico, con una caparbietà che rasenta la paranoia, inibizione delle emozioni, ipervigilanza, antagonismo difensivo nei confronti degli altri; «paranoia», ossia sospettosità, diffidenza, rigidità e ipervigilanza. Tali soggetti vivono in uno stato di costante iperarousal e di sensitività interpersonale, che può alimentare comportamenti aggressivi e imprevedibili.
Si riscontrano, inoltre, «aggressività», come tendenza a manifestare un comportamento ostile quale preludio ad un acting out eterodiretto, espressione del controllo dell’aggressore sulla vittima; «sadismo», quale manifestazione di una modalità comportamentale crudele ed umiliante, indicativa di un bisogno di controllo assoluto sulla vita altrui[4]; «ambivalenza», in cui opposti sentimenti coesistono, comportando indecisione in merito ad una linea coerente di condotta[5]; «instabilità emotiva» che, per la tendenza a repentini e frequenti cambi di umore oscillanti dall’euforia alla depressione, espone il soggetto con bassa soglia di tolleranza a reazioni colleriche; «bassa autostima», con tendenza a giudicarsi negativamente, in una sorta di «menzogna autoriverberante»; «narcisismo», espressione di grandiosità, superficialità, arroganza, carenza di empatia e considerazione per i sentimenti altrui, desiderio di ammirazione. Il narcisista, ipersensibile alle critiche, se impossibilitato ad ottenere ciò che desidera, tende all’impulsività e all’aggressività, diventando pericoloso per gli altri.
Combinazioni di questi tratti si riscontrano sovente in disturbi di personalità presenti in perpetratori di reati di sangue, spesso con caratteristiche catatimiche (Meloy, 2016): impulsività, egocentrismo e paranoia nel disturbo di personalità paranoide; egocentrismo, narcisismo, sadismo, aggressività nella personalità psicopatica; ossessività emotiva e dipendenza nel disturbo antisociale di personalità; ossessività compulsiva, impulsività, instabilità emotiva, narcisismo, ambivalenza nel disturbo borderline di personalità (Dazzi & Madeddu, 2009).
Particolarmente rilevante è il ruolo assunto dal narcisismo[6] nel modulare relazioni perverse, in cui il rapporto interpersonale è caratterizzato da bisogno di potere, dominio, controllo ed estrema sensibilità alle critiche, vissute come un attacco intollerabile alla propria autostima. Parlare di narcisismo significa affrontare un costrutto estremamente eterogeneo, che si distribuisce in una dimensione di spettro diversificata tanto da costituire quella che Lingiardi (2021) ha definito «Arcipelago N»: partendo da forme di «narcisismo sano», si giunge a forme patologiche, i cui estremi si concretizzano in un difetto (vulnerabilità-sensibilità) o un eccesso di autostima (grandiosità-esibizionismo). Accanto ad una dimensione narcisistica sana – con stabilità dell’autostima, amor proprio senza presunzione, desiderio di realizzarsi, soddisfazione per i successi propri ed altrui, empatia, piacere nelle relazioni – necessaria per un equilibrio del Sé e relazioni interpersonali funzionali, esistono forme di narcisismo patologico che, sebbene caratterizzate da una diversa espressività fenomenica, sono accomunate da sentimenti di insicurezza, egocentrismo, rabbia, invidia, vergogna, bisogno di ammirazione, indicativi di un alterato sviluppo e maturazione del Sé.
La dizione stessa di narcisismo è stata utilizzata per indicare modalità di funzionamento mentale molto diverse fra loro, oppure un tipo di scelta oggettuale intrapsichica, o anche una fase dello sviluppo psicosessuale. Il disturbo narcisistico è stato differentemente teorizzato dalle varie scuole di pensiero, soprattutto psicodinamiche, tanto da essere configurato come una semplice fase evolutiva, comunque superabile anche se ritardata, oppure come una vera e propria malattia mentale. Khout (1971) e Kernberg (1984) inquadrano tale dimensione in maniera differente: mentre per il primo il Sé del narcisista è solo «arcaico», ovvero bloccato ad un livello evolutivo primordiale e non ha significato difensivo, per il secondo il Sé narcisistico è altamente disfunzionale in quanto frutto della fusione fra «Sé ideale» e «Sé reale», rappresentando una difesa abnorme dall’investimento affettivo altrui.
Risulta evidente come il ruolo della struttura narcisistica di personalità, pur con gradi differenti in relazione alle sue declinazioni all’interno di un continuum tratto-disturbo, presenta inscritta in essa la possibilità di un passaggio all’atto innescato da vissuti di delusione o di vergogna-offesa, in cui la distruttività agita, sia sotto forma di violenza fisica che psicologica, assurge a funzione di difesa rispetto ad una «ferita» percepita come «mortale» (Scudellari et al., 2006) a causa di un nucleo problematico a carico delle relazioni oggettuali primarie che ha determinato un processo di «individuazione-separazione» non fisiologico. Carenze empatiche, privazioni affettive, mancanza di un ambiente empatico genitoriale che possa favorire un adeguato rispecchiamento (mirroring), possono infatti provocare nel bambino deficit strutturali primari nella costituzione del Sé che, da adulto, si possono tradurre in difficoltà nelle relazioni interpersonali, tendenze affettive scarsamente modulate, scarsa capacità introspettiva, mancanza di empatia. Tali elementi, assieme ad una sproporzione fra aspirazioni e reali capacità potenziali (rapporto “Ideale dell’Io-Io Reale”) e a relazioni sociali ed oggettuali immature essenzialmente manipolative e strumentalizzate, caratterizzate da uno scarso interesse per l’Oggetto relazionale, appaiono tipiche di un livello di organizzazione della personalità patologico di tipo narcisistico, caratterizzato da strutture personologiche arroccate su un falso Sé grandioso (Kohut, 1971), non sufficientemente stabile e pseudointegrato e pertanto a rischio, in determinate circostanze foriere di significative ferite narcisistiche, di incapacità nel modulare un’affettività pulsionale che si tramuta in rabbia distruttiva agita con conseguente possibilità di un passaggio all’atto (Cimino, 2018; Nivoli et al., 2021). Come scrivono Muscatello & Coll. (1985): «la vocazione psicotica del narcisismo emerge tutte le volte in cui l’Io si scopre esposto ad una ferita mortale che riattiva la ferita narcisistica originaria ed inguaribile, la prima castrazione e la prima perdita, quella inferta dalla stessa nascita. Questa perdita, o meglio, parlando di narcisismo, questo tradimento, questa vergogna e questa offesa si riaffacciano tutte le volte che ci abbandona o ci delude un oggetto sul quale era proiettato un riflesso del nostro ideale narcisistico».
Come già accennato esistono diverse tipologie di narcisismo patologico, che sono state variamente definite (Narcisisti a «pelle spessa» (thick skin) e a «pelle sottile» (thin skin) (Rosenfeld, 1964); Narcisisti inconsapevoli e narcisisti ipervigili (Gabbard, 1989); Narcisisti Overt e narcisisti Covert (Wink, 1991); Narcisisti arrogant/entitled e narcisisti depressed/depleted (McWilliams, 2011) e che possono essere riassunte in:
- “Narcisismo fragile”, caratterizzato da sentimenti di inferiorità, ipersensibilità alla critica, ricerca di approvazione, invidia, vergogna, disagio nelle relazioni, grandiosità segreta;
- “Narcisismo arrogante”, caratterizzato da sentimento di superiorità, richiesta di ammirazione, egocentrismo, scarsa empatia, grandiosità esibita, onnipotenza, pretese di privilegio;
- “Narcisismo maligno”, caratterizzato da manipolazione, sfruttamento interpersonale, perversione relazionale, sadismo, tratti paranoidi, assenza di empatia, nessun rimorso o sentimento di colpa.
Le personalità narcisistiche, pertanto, sono varie, diverse fra loro e vanno sempre considerate lungo un continuum di gravità (Lingiardi, 2021), al cui estremo si colloca la personalità psicopatica il cui pattern comportamentale si caratterizza per essere predatorio, programmato, altamente distruttivo, noncurante delle conseguenze delle proprie azioni, privo di rimorso, tendente a controllare gli altri, spinto da un intenso desiderio di ottenere ciò che vuole. Merita ricordare come il costrutto della personalità psicopatica, spesso definito “psicopatia” o “sociopatia”, presenta un lungo e controverso sviluppo, ma è stato soprattutto con autori come Cleckely (1941) e Hare (1993) che la psicopatia ha avuto una sua sistematica descrizione come «una costellazione di diversi tratti di personalità», inclusi il fascino (superficial charm), la mancanza di senso di colpa ed empatia (lack of guilt and empathy), la disonestà, i fallimenti nei rapporti umani, l’incapacità di trarre insegnamenti dalla punizione, in assenza di deliri e pensieri irrazionali.
In particolare se Cleckely, nella sua opera «The Mask of Sanity» (1941), descrive la persona psicopatica come un individuo che «malgrado la presentazione esterna apparentemente sincera, intelligente e anche affascinante, internamente non ha la capacità di gestire genuine emozioni (…) una perfetta simulazione di una persona normalmente funzionante, capace di mascherare la fondamentale mancanza di una struttura interna di personalità, l’interno caos», Hare invece, nell’opera «Without Coscience» (1993), ponendo l’accento sulla mancanza di rimorso e di colpa e sulla dimensione antisociale del comportamento, descrive gli individui psicopatici come «predatori intraspecie che usano charm, manipolazione, intimidazione e violenza per controllare gli altri e soddisfare i propri bisogni. Mancando di coscienza e di sentimenti per gli altri a sangue freddo, prendono quello che vogliono e fanno quello che gli piace, violando le norme sociali e le aspettative senza il minimo senso di colpa o rifiuto (…) per egocentrismo, freddezza e mancanza di rimorso senza difficoltà possono infiltrarsi in tutti gli aspetti della società (…)».
La personalità psicopatica si connota, pertanto, per rapporti interpersonali caratterizzati dall’aggressività e dal potere piuttosto che dall’attaccamento affettivo, in cui non c’è adesione a nessun sistema di valori che sia l’esercizio aggressivo e sfruttante del potere, in cui aspetti sadici si associano alla mancanza totale di interesse nel giustificare moralmente il proprio comportamento: egocentrismo, narcisismo, anaffettività, freddezza affettiva, mancanza di empatia, aggressività violenta, sadismo, mancanza di disciplina, eccessiva e fatua fiducia nelle proprie capacità di improvvisazione sono le caratteristiche tipiche che si riscontrano nelle personalità psicopatiche. Pur rappresentando il narcisismo «il nucleo funzionale ed affettivo» della psicopatia (Meloy, 2001), considerando che il «comportamento antisociale e psicopatico è meglio caratterizzato come una variante primitiva del continuum del disturbo narcisistico di personalità» (Gabbard, 2007), per cui può anche essere ritenuta come la forma più grave e meno trattabile dell’organizzazione borderline di personalità[7] (Kernberg, 1984), tuttavia è necessario differenziare (Dazzi & Madeddu, 2009) gli individui psicopatici sia dai soggetti affetti da narcisismo maligno che da coloro che esibiscono un comportamento antisociale all’interno di un disturbo narcisistico di personalità[8], in quanto diversa è la prognosi e la risposta trattamentale, che per la psicopatia, a differenza delle altre forme di narcisismo, si colloca «oltre la trattabilità» (Stone, 2002). Infatti preme ricordare, a riguardo, come la presenza di narcisismo, psicopatia e comportamenti strumentalizzati di tipo machiavellico (c.d. “triade oscura) (Paulhus & Williams, 2002) assieme a tratti sadici della personalità viene a identificare quella organizzazione psichica definita come “dark tetrad” (tetrade oscura) che da molti autori viene identificata con quel costrutto teorico comunemente definito come malvagità. (Mededovic & Petrovic, 2015).
Altro elemento centrale che spesso connota lo psichismo degli autori di questi «delitti del vuoto» è la presenza di particolari vissuti di noia quale espressione – per l’appunto – di un vuoto che si concretizza in un vero e proprio taedium vitae. Quando la noia si produce indipendentemente, o in modo relativamente indipendente dalle circostanze, quando non vi è alcuna rappresentazione progettuale che possa spingere ad azioni volte ad eliminarla, quando l’assenza di motivazione sembra non lasciare trasparire alcuna alternativa non solo reale, ma neppure fantasmatica, quando l’oggetto del desiderio non solo è assente, ma non esistente (Hartocollis, 1977), quando l’attesa è attesa senza motivo di niente, allora la noia diviene vero e proprio taedium vitae, «la vacuità della stessa anima che sente il vuoto» (Pessoa, 1990): cioè un affetto che si apre a dimensioni metafisiche rivelandone le radici nella stessa costituzione esistenziale del soggetto (Maggini & Dalla Luche, 1987, 1991).
Dall’analisi della letteratura relativa alla noia non emerge, tuttavia, una definizione univoca di questo complesso stato emotivo che, in linea generale, può essere ricondotto ad uno stato mentale in cui tutto perde senso e sembra che vada, inesorabilmente, ripetendosi. Esso si manifesta come uno stato patico più o meno transitorio, in cui l’individuo esperisce un senso di frustrazione, carenza di intenzionalità e una sensazione di dolorosa alienazione della realtà percepita come senza senso ed inutile. In particolare la letteratura in merito (Lari et al., 2013) suole distinguere una noia c.d. “normale” e una noia “patologica”: mentre nel primo caso essa emerge in specifiche situazioni ambientali percepite dal soggetto come poco interessanti, con uno scarso livello di attrattiva e povere di stimoli sensoriali rilevanti, spesso in relazione ad attività ripetitive e monotone, nel secondo caso, la noia può, invece, derivare da una condizione interna che si traduce in uno stato di sofferta indifferenza, di “apatia patica” rispetto al mondo esterno che perde la propria consistenza e ogni caratteristica di piacevolezza.
La differenza fra patologia e normalità risiede essenzialmente nella modalità di esperire la noia e nelle manifestazioni comportamentali che ne derivano: infatti la noia “patologica” è costituita dalla medesima organizzazione cognitiva ed affettiva, ma ciò che varia è la permanenza del soggetto in uno stato di sofferenza emotiva svincolata da situazioni esterne, da cui lo stesso tenta di uscire attraverso la messa in atto di pattern comportamentali maladattativi e disfunzionali (abuso di sostanze, discontrollo degli impulsi, discontrolli alimentari, ecc.) (Maggini, 2000). La noia rappresenta un modo di intonarsi al mondo-ambiente, espressione di una dissincronia con il mondo esterno, laddove viene in questione la ragione stessa di vivere, assurgendo ad una vera e propria metafora di una coartazione vitale che non ammette salvezza, come ben rappresentato da Moravia (1960) laddove riporta che «La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà [ … ]la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina [ .. .]. Un sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza» (Maggini & Dalla Luche, 1987, 1991).
Esperienza emotiva, quindi, quella del «vuoto», della noia, carica di vissuti di futilità, di penoso fallimento, di irrequieto malessere, che condiziona una percezione del mondo come fittizio, assente, falso, tanto da concretizzare una cornice timica che si configura come un’esperienza simile ad uno stato di «depersonalizzazione cronica», di una «cupa insofferenza», ad uno smarrimento anaclitico che, sovente, conduce alla ricerca di sostanze psicotrope quale tentativo illusorio di vivere il presente in maniera profonda e partecipe, di colmare l’angosciante esperienze di «vuoto», con il risultato di incrementare ancor più quella dimensione disforica in cui si alternano irruzioni episodiche, ripetitive e stereotipate di rabbia che possono concretizzarsi anche in passaggi all’atto etero-aggressivo privi di una ideazione e di una motivazione definita.
Conclusioni
Per comprendere il senso dei gravi fatti di sangue che sembrano sempre più caratterizzare alcune condotte violente della contemporaneità, soprattutto a carico del mondo giovanile, non ci si può esimere da una profonda riflessione sulla crisi «dei codici istituiti» che caratterizzano la post-modernità, tradottisi in un profonda metamorfosi sociale della coscienza individuale, che si manifesta in uno stato di deficit (senso di vuoto, noia, senso di irrealtà ed inadeguatezza) espressione di quello sfaldamento della matrice intersoggettiva che concorre alla costruzione di una identità stabile.
L’approccio al disagio psichico contemporaneo nelle sue multiformi e spesso indefinite modalità di presentazione psico(pato)logiche rappresenta, pertanto, una «sfida della complessità» (Morin, 1985), che mette in crisi modelli precostituiti assistenziali evidenziandone la fragilità e l’inadeguatezza e che, pertanto, necessita dell’esercizio del «metodo della complessità» quale espressione di un pensiero multidisciplinare, che richiede di pensare senza mai chiudere i concetti, di ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, ricercando, attraverso «il risvegliarsi ad un problema», le possibili soluzioni allo stesso. Pur non esistendo una spiegazione univoca alla base di condotte complesse come quella omicidaria e sebbene non possa essere individuato un profilo psico(pato)logico prototipico a carico dei perpetratori di tale tipologia di crimini, tuttavia, ricordando che il delitto è relazione, sembra rilevarsi in questi soggetti un comune denominatore che alimenta una dimensione «perversa» della relazione interpersonale in cui, cioè, è possibile identificare una distorsione del funzionamento delle «relazioni oggettuali», ovvero del rapporto Io-Altro, con conseguenti problemi nel processo di separazione/individuazione e nella formazione del Sé che, con lo strutturarsi di forme patologiche di attaccamento, impedendo l’elaborazione di abbandoni e distacchi, possono tradursi anche in comportamenti violenti (Fornari, 2014; Meloy 2016).
Questo elemento comune è a nostro avviso riscontrabile in un funzionamento della personalità che viene a collocarsi all’interno dello spettro narcisistico, il quale, pur potendo presentare una gravità variabile, risulta comunque caratterizzato da un profondo bisogno di controllo sulle situazioni, di azioni che confermino la propria grandeur nei confronti degli altri: si tratta di assetti instabili nella loro stabilità in cui la particolare suscettibilità di fronte a vissuti di vergogna può stimolare sia reazioni distruttive impulsive e rabbiose, che manovre difensive che possono anticipare strategicamente il rischio di possibili insulti narcisistici con la messa in atto di condotte devianti e/o criminali.
La condotta omicidaria, in particolare, spesso perpetuata da soggetti appartenenti al ceto medio, talvolta ampiamente scolarizzati, apparentemente bene integrati nella società, viene a rappresentare il primo e drammatico sintomo di un disagio che l’individuo non riesce a superare, di uno stato di sofferenza marcata riferibile sia al proprio mondo interiore che al contesto relazionale, espressione di una radicale difficoltà a gestire la complessità e, all’interno di questa, a far fronte alle contraddizioni dei percorsi di socializzazione, di identificazione propri della società post moderna. Secondo la «teoria del campo» di Kurt Lewin (1961), il comportamento di una persona deve essere individuato in base al rapporto fra sue qualità personali (psico-patologiche) ed ambientali (interessi a cui il soggetto deve provvedere) in un dato momento, rappresentando pertanto la risultante dello stato psichico della persona nel momento considerato (P) e delle caratteristiche dell’ambiente psicologico entro il quale essa si trova (A) riassunto nella formula C= f (P, A).
L’agire umano è, infatti, espressione non di un soggetto nel contesto, ma di un soggetto e di un contesto in costante relazione, tale per cui «ogni psicologia scientifica deve tener conto della situazione interna, cioè sia dello stato della persona che dell’ambiente (…)» (Lewin, 1961). Pertanto solo un’analisi psico(pato)logica approfondita che ponga cioè attenzione alla derivabilità motivazionale e situazionale tra avvenimento, personalità e storia di vita, potrà consentire di comprendere eventi di sangue apparentemente immotivati ed inspiegabili ad opera di soggetti fino a quel momento apparentemente ben adattati relazionalmente (Callieri, 2008; Balloni, 2010).
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A tal proposito non risulta superfluo sottolineare la centralità del ruolo assunto dalla particolare dinamica relazionale esistente fra vittima e carnefice nella criminogenesi e criminodinamica dei delitti che avvengono in contesti relazionali, per cui particolare attenzione dovrà essere posta anche alla conoscenza psicologica della vittima il cui ruolo “attivo”, più o meno consapevole, appare fondamentale, non solo per la comprensione psicopatologica e criminologica del fatto-reato, ma anche per individuare “traiettorie vittimologiche” con finalità preventive (Bisi, 2004; Nivoli et al, 2010). ↑
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Il termine “femminicidio”, locuzione che, in maniera impropria, ha finito per sottendere ogni espressione di violenza di genere in cui il genere femminile della vittima assurge a fattore criminogenetico essenziale. In realtà concordiamo con quegli autori (Monzani, 2016) che ritengono che la violenza di “genere” rappresenta, invece, una violenza “relazionale”, in cui cioè la criminogenesi andrebbe individuata nella specifica dinamica relazionale, in quanto non è il genere a determinare una predisposizione vittimogena specifica -come invece nel caso del c.d. “femmicidio”-, ma è la relazione autore-vittima prima del fatto-reato a rappresentare la vera dirimente per individuare le motivazioni che hanno portato ad esso. ↑
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Mentre il “tratto” identifica una configurazione di personalità caratteristica, ovvero connotata da ben definite modalità di funzionamento, che, tuttavia, risultano clinicamente non significative, ricadendo nel range della normalità, con il concetto di “stile” si suole definire una distintiva e caratteristica configurazione di tratti di personalità, sempre subclinica, sebbene vi possano essere occasionali difficoltà adattative. Pertanto sia il “tratto” che lo “stile” rappresentano pattern di personalità che non raggiungono una soglia di difficoltà adattative sufficientemente problematiche da giustificare una diagnosi clinica coerente con una condizione di “disturbo di personalità”. Infatti soltanto quando i tratti di personalità sono rigidi e disadattativi e causano una significativa compromissione funzionale o un disagio soggettivo, denotano disturbi di personalità. La caratteristica essenziale di un disturbo di personalità, secondo il DSM-5 (2013), è un pattern abituale di esperienza interiore che devia marcatamente rispetto alle aspettative di cultura dell’individuo e si manifesta in almeno due delle seguenti aree: cognitività, affettività, funzionamento interpersonale o controllo degli impulsi (Criterio A). Questo pattern abituale risulta inflessibile e pervasivo in un’ampia varietà di situazioni personali e sociali (Criterio B) e determina disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio C). Il pattern è stabile e di lunga durata, e l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta (Criterio D). Il pattern non risulta meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale (Criterio E) e non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica (Criterio F). ↑
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Il DSM III-R (1987) contemplava il disturbo sadico di personalità caratterizzato da un abituale comportamento aggressivo, crudele ed umiliante verso gli altri. Il DSM IV-TR (2000) e così anche il DSM 5 (2013) non contempla più il disturbo sadico di personalità, ma all’interno delle parafilie considera il sadismo sessuale, descrivendolo come consistente in fantasie sessuali sadiche e in impulsi sessuali con partner consenziente oppure non consenziente (come nel lust serial killer) che risultano sessualmente eccitanti. ↑
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Trattasi di una caratteristica di frequente riscontro nel disturbo Borderline di personalità e nelle personalità Passivo-Aggressive ↑
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Il termine narcisismo, facendo classicamente riferimento all’antico mito di Narciso, che innamoratosi della propria figura riflessa in acqua, annegò per averla voluta contemplare troppo da vicino, riporta all’aspetto tragico legato all’amore per la propria immagine. Introdotto da Richard von Krafft-Ebing nella sua Psychopathia sexualis (1886) per indicare un tratto del soggetto caratterizzato da esibizionismo, masturbazione e sessualità, successivamente è stato utilizzato in termini psicoanalitici per la prima volta da un allievo di Freud, Paul Näcke (1898), per indicare “quella perversione sessuale in cui l’oggetto preferito dal soggetto è il proprio corpo”. La tematica del narcisismo divenne poi centrale nell’opera di Freud (1914) subendo successivamente varie riformulazioni. Cfr: Galimberti, U. (2019). Nuovo Dizionario di Psicologia, Psichiatria, Psicoanalisi, Neuroscienze. Feltrinelli, Milano. ↑
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Secondo Kernberg la personalità narcisistica, quella antisociale, quella isterica e quella borderline presentano una struttura sottostante simile, caratterizzata dalla diffusione di identità, uso di difese primitive, in particolare la scissione, ed una generale abilità nell’esame di realtà. Con la definizione borderline, Kernberg intendeva pertanto riferirsi ad un’organizzazione di personalità, con diverse “tipologie”, tutte caratterizzate da un grado evidente di pervasività e cronicità, e tutte in qualche modo incompatibili con il funzionamento sociale. ↑
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Sebbene nel costrutto della personalità psicopatica non vengono enfatizzati comportamenti antisociali o criminali quali caratteristiche necessarie di questa dimensione psicopatologica, gli estensori del DSM adottarono una concezione della psicopatia più fortemente basata su aspetti comportamentali, tanto da inquadrarla essenzialmente nel costrutto di “personalità antisociale”, sollevando, in tal modo, molte critiche da parte di numerosi autori in quanto questa categorizzazione non solo appariva troppo generalizzata, non coprendo tutti le varianti di psicopatia (psicopatia nevrotica, psicopatia antisociale, psicopatia schizoide, ecc.), ma soprattutto non definiva in modo adeguato le caratteristiche essenziali della personalità psicopatica (Dazzi & Madeddu, 2009; Glenn & Raine, 2014). Nonostante ciò attualmente i criteri per i disturbi di personalità, presenti nella Sezione II del DSM-5, non sono cambiati rispetto a quelli del DSM-IV; tuttavia è stato sviluppato un approccio alternativo alla diagnosi dei disturbi di personalità, da sottoporre ad ulteriori studi, che è stato inserito nella Sezione III (“Modello alternativo del DSM-5 per i disturbi di personalità”), in cui i disturbi di personalità vengono definiti come caratterizzati da compromissioni del funzionamento della personalità (disturbi del funzionamento del sé e interpersonale) (criterio A) e da tratti di personalità patologiche (criterio B) che definiscono sei disturbi di personalità specifici (Disturbo antisociale di personalità; Disturbo evitante di personalità; Disturbo borderline di personalità; Disturbo narcisistico di personalità; Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità; Disturbo schizotipico di personalità). Fra i criteri diagnostici del disturbo antisociale di personalità viene riportato lo specificatore «con caratteristiche psicopatiche», per definire una variante distinta del disturbo, denominata appunto psicopatia (o psicopatia “primaria”), caratterizzata da uno stile interpersonale sfrontato, che può mascherare comportamenti disadattativi (per esempio, fraudolenza), bassi livelli di ansia (area affettività Negativa) e di distacco (area del Distacco) ed alti livelli di ricerca dell’attenzione (area dell’Antagonismo). ↑