Mobbing: verità processuale e danni connessi

 In Sul Filo del Diritto, N. 3 - settembre 2015, Anno 6

Secondo gli Ermellini, la ricorrente avrebbe omesso di allegare e quindi dimostrare i fatti lamentati. In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la Corte rileva come la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte ai sensi dell’art. 1218 codice civile, ma deve allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o anche alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. civile del 11 aprile 2013 n. 8855 nonché Cass. civile del 14 aprile 2008 n. 9817).

Con la presente decisione la Corte ribadisce, altresì, un importante principio di diritto questa volta sotto l’aspetto dell’onere della prova gravante sul ricorrente in Cassazione ex art. 369, secondo comma, n. 4 C.P.C., a pena di improcedibilità. Pertanto il ricorrente, «ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 C.P.C., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento».

Ricerche e statistiche in Italia

Secondo i dati forniti dalla prima ricerca statistica sul mobbing in Italia -condotta a Bologna nel 1998[2]-, i settori più colpiti sono: industria, pubblica amministrazione, scuola, sanità e settore bancario. Secondo le stime raccolte dalle numerose testimonianze di mobbizzati o presunti tali, si mette in evidenza che la categoria più colpita dalle condotte sotto analisi è quella dei colletti bianchi. Nel pubblico impiego i mobbers sembrano essere maggiormente rappresentati dai colleghi e dai superiori, con lo scopo di punire o scoraggiare azioni da parte del dipendente, atte a contrastare l’ideologia dominante nell’ufficio. Nei settori privati, invece, il bossing sembra essere la pratica preferita. Una successiva indagine (Ege H., 2001), ci informa che le fasce d’età più colpite sono per gli uomini quelle tra i 30 e i 40 anni e le donne quelle tra i 40 e i 50 anni.

Sempre secondo dati ISPELS, non recentissimi ma indicativi, una percentuale piuttosto elevata (che si aggira intorno al 71%) dei casi di mobbing si verificherebbe all’interno della PA. Sempre l’ISPESL ha quantificato nel 62% i casi di mobbing ai danni di persone con più di cinquanta anni e in una percentuale pari all’81% del totale la presenza, tra i bersagli delle condotte mobbizzanti, di quadri e di impiegati. Da altre analisi svolte dall’Istituto citato risulterebbe che a esercitare il mobbing sarebbero per ben il 57,3 per cento i superiori, persone cioè dotate di una certa autorità, del prestatore di lavoro. La circostanza che le condotte persecutorie siano in percentuale altissima poste in essere all’interno dell’amministrazione pubblica da soggetti (dirigenti) abilitati al compimento di atti che hanno ricadute sulla qualità della vita della generalità degli utenti, sull’ambiente, sulle economie locali e sul benessere globale dell’intero Paese preoccupa, fa riflettere, indigna. A favorire gli abusi e i maltrattamenti sono spesso gli standard organizzativi scadenti degli enti pubblici, ma determinante in tal senso.

L’IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative), nel 2004, ci comunica che il 5,2% dei 3000 soggetti intervistati sono vittime di mobbing, di cui il 66,9% uomini, l’80,0% assunti a tempo indeterminato, il 63,8% residenti al sud e il 34,5% occupati nell’industria. Il 5,5% dichiara di aver subito mobbing in passato, il 60,7% dei quali sono donne, e il 27,0% assunto nella pubblica amministrazione. Tra le categorie maggiormente colpite da mobbing, (Salamone F., 2007), le troviamo nel pubblico impiego, con valori che raggiungono il 79% del totale dei mobbizzati, insieme a categorie che si riscoprono più vittime di ieri di queste pratiche, gli operai.

Un ambito altrettanto florido alla proliferazione del mobbing, risulta essere l’ambiente universitario, nel quale il cattedratico funge da legge, monarca assoluto di tutte le decisioni che dovranno venir rispettate dal primo all’ultimo dei suoi sottoposti.

I Centri di ascolto anti-mobbing Uil (Convegno di Roma, 29 novembre 2007 Il mobbing. Il lavoro vessato e in “sano”. Quali soluzioni e quali interventi? a cura della Dott.ssa Alessandra Menelao) ci confermano che le donne sono le più colpite, con una percentuale del 60%. Le fasce di età maggiormente coinvolte sono: 31-40 (22,2%), 41-50 (37,2%), 51-59 (23,5%). Tra le categorie più a rischio troviamo gli operai con il 9,8%, i quadri con il 22,8%, e gli impiegati con il 55,1%. Le aree del sud Italia sembrano le meno colpite dal fenomeno, solo il 4,1%, il centro 8,7%, nord 39%, e la percentuale più alta è stata riscontrata nelle penisole, 48,2%. Lombardia e Sicilia le regioni con il bollino rosso, rispettivamente 30,2% e 47,7%. Le azioni mobbizzanti più frequenti riguardano gli attacchi alle relazioni sociali, 24,3%, e gli attacchi rivolti alla vita professionale, 64%. I settori lavorativi: industria con il 3,4%, credito e assicurazioni con il 3,5%, telecomunicazioni con il 5,5%, pubblico impiego con il 10,3%, il terziario con il 13%, pubblica amministrazione con il 16,4%, e la scuola con il 28,2%. I problemi psico-fisici più facilmente riscontrati sono: disturbo post-traumatico da stress (1,9%), ansia (15,2%), sindrome ansiosa-depressiva (19,5%), demotivazione (27,6%), stress occupazionale (31,8%). Nello 0,5% dei casi il mobber è un dipendente di grado inferiore, nell’8,4% è un dipendente di pari grado, nel 41,3% è il superiore, nel 49,8% è il datore di lavoro.

Come possiamo vedere da queste statistiche, sembra abbastanza difficile estrapolare una visione generale del fenomeno, essendo i dati non sempre in armonia fra loro, motivo per cui occorrerebbero monitoraggi frequenti e possibilmente intersettoriali, in modo da possedere elementi più comparati e meglio rappresentativi, soprattutto per il “sommerso”. La crisi economica, con la conseguente difficoltà nel trovare un’occupazione a tempo indeterminato, ha stretto molti lavoratori in una morsa di silenzio, spinti a sopportare ogni genere di fatica, di lavoro straordinario, salari mal remunerati, rinunce, consci che, una volta usciti, la porta girevole di un tempo, potrebbe chiudersi definitivamente alle loro spalle. Altre categorie sottorappresentate potrebbero essere i giovani. Numeri, che a nostro avviso, rafforzano i dubbi nei confronti di un fenomeno schivo dal punto di vista legislativo e sociale, e che le indagini non aiutano a rendere maggiormente eloquente.

I nuovi orizzonti del mobbing: lo Straining

Fin qui possiamo ben dire come le condotte del mobbing integrino una di quelle fattispecie in cui il diritto e la psicologia si incontrano, in un ambito nel quale una scienza si trova a non poter fare a meno dell’altra. Accanto al più diffuso mobbing – termine ormai di utilizzo comune– la giurisprudenza ha introdotto un concetto nuovo, quello di straining, visto come «una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è, rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante[3]». La sentenza citata, la prima in Italia sull’argomento, ha avuto il pregio di definire i contorni di una fattispecie molto particolare, nella quale, a differenza del mobbing, i comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro non presentano i caratteri della frequenza e della ripetitività, potendosi concretizzare anche in una sola azione ostile nei confronti del lavoratore.

Ciò che importa, ai fini dell’individuazione dello straining, è piuttosto la permanenza, in capo alla vittima, di una condizione psico-fisica di disagio sul luogo di lavoro. In tale contesto, hanno rilevanza situazioni lavorative particolarmente “stressanti”, come, ad esempio, episodi di dequalificazione e/o isolamento professionale, che, oltre a doversi dimostrare ingiusti secondo un criterio di oggettività, devono generare nel destinatario una forma di pressione superiore a quella connaturata alla natura stessa del lavoro svolto ed alle normali interazioni organizzative. Il bene tutelato può qui identificarsi, da una parte, con la salute e l’umana dignità del prestatore di lavoro e, dall’altra, con la professionalità e la capacità dello stesso di produrre reddito.

L’ultima e più importante pronuncia in materia di straining proviene dalla Corte di Cassazione[4]: il giudizio in parola ha avuto il merito di conferire cittadinanza giuridica al fenomeno dello straining, in passato impropriamente identificato alla stregua del più complesso mobbing, del quale, invece, è da considerarsi un forma, per così dire, attenuata. Se, infatti, alcuni dei tratti distintivi del primo sono proprio la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni perpetrate ai danni della vittima da un singolo o da un gruppo di persone, nello straining, i soggetti coinvolti sono destinatari di sporadiche azioni ostili, causa, pur tuttavia, degli stessi “sintomi” del mobbing: problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, che si ripercuotono sovente sulla qualità della vita del soggetto.

Sicuro è che entrambe le fattispecie raffigurano una costruzione giurisprudenziale, avvalorata da una dottrina quasi concorde: nel diritto positivo, infatti, non v’è traccia del fenomeno del mobbing, né tantomeno di quello dello straining.

Conclusioni

Tale ultima constatazione apre le porte ad una duplice categoria di riflessioni. Da una parte, è senza dubbio lodevole che gli interpreti del diritto, suffragati da autorevoli studiosi, abbiano deciso di rafforzare la tutela di quei soggetti che, in una condizione di inferiorità sul luogo di lavoro e preda di particolare fragilità psicologica, corrono il rischio di vedersi sottoporre ad una pressione spropositata, con serie ripercussioni sulla propria condizione di salute. In tal senso, è desiderabile un intervento del legislatore in materia, sia per fissare i tratti distintivi di tutti questi fenomeni anche da un punto di vista del diritto sostanziale, che per un’elementare esigenza di certezza giuridica.

D’altro canto, l’obiettivo di un’equa normativa dovrebbe essere quello di operare un corretto bilanciamento degli interessi, di più, dei diritti in gioco. Evitando da un lato una tutela eccessiva nei confronti dei dipendenti poco zelanti e ligi al lavoro, per questo moventi cause a volte pretestuose; dall’altro perseguire i casi reali di abuso da mobbing o da qualsivoglia altra condotta vessatoria fin’ora decretabile e riscontrabile. Così facendo sarà possibile da un lato schivare il rischio di un non controllo sugli abusi effettivamente esistenti, ma concretamente non tutelati, e dall’altra non moltiplicare oltremisura i comportamenti perseguibili in modo da consentire al datore di lavoro, di effettuare le proprie scelte dirigenziali in equilibrio ed autonomia, seppur con il sacrificio fisiologico delle aspettative dei dipendenti.

L’insieme dei giochi dovrebbe poter essere finalizzato a non generare un ulteriore compressione tanto del sistema lavoro, quanto della società: tutti questi meccanismi di abuso non si ripercuotono soltanto sul mobbizzato ma l’intera azienda ne risente, così come del resto la collettività nel suo insieme. A causa di periodi di malattia, dell’inefficienza produttiva, per non parlare dei costi che sarà la comunità a dover sostenere a cagione del prepensionamento e della previdenza sociale, finiremmo per assistere a un innalzamento del costo del lavoro.

Più è elevata la precarietà e la crisi dell’occupazione, più è facile trovarsi “a spasso”, a causa proprio di una concorrenza più spietata tra colleghi, che per andare avanti, non disdegnano a far fuori gli elementi più deboli o quelli che vengono percepiti come “scomodi”.

La tutela dei diritti, certa e funzionante, ma sempre accompagnata dal buon senso e dall’onestà. Par condicio tanto per il lavoratore, quanto per il datore di lavoro in un bilanciamento costante dei diritti.

Bibliografia

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[1] Sul tema si veda anche: Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 15/05/2015 n° 10037; Tribunale, Santa Maria Capua Vetere, sentenza 15/02/2015 n° 598; Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 23/01/2015 n° 1262.

[2] Ege H., 1999, op. cit.

[3] Cfr. Tribunale del lavoro di Bergamo, Sent. n. 286 del 2005.

[4] Cfr. Cassazione, sentenza 3 luglio 2013, n. 28603.