Minori figli di Internet

 In @buse, N. 2 - giugno 2015, Anno 6

Gli adolescenti in Rete vengono definiti “nativi digitali” in quanto soggetti che presentano un innato senso dell’Internet e di tutti i servizi e gli strumenti che vi attengono. Sicuramente questo si traduce in una risorsa ma è altrettanto vero che può rivelarsi anche come grosso rischio.

Sono evidenti a tutti gli “orchi neri” del cyberspazio: pedopornografia, pedofilia, prostituzione minorile, adescamento o grooming, cyberbullismo, diffamazione, violazione della privacy e della web reputation, gioco d’azzardo o gambling.

Una statistica commissionata da Save the Children di cui tratteremo diffusamente nel prosieguo rileva che gli adolescenti non avvertono le minacce della Rete e che molti non conoscono neppure gli strumenti-base per difendersi come il pulsante antiabuso nei social network.

Un altro dato interessante non vagliato dalla statistica si rileva nell’assoluta ignoranza sulle implicazioni giuridiche e giudiziarie di azioni avvertite come “innocenti”. Pensiamo all’apposizione di un “like” o “mi piace” inerente a un video o a un post lesivo.

Le rilevanze appena ricordate sospingono la riflessione sul tema “minori e Internet” ben oltre la filosofia della “Rete Libera” o “neutralità della Rete” secondo cui non può essere imposto l’obbligo di sorveglianza agli Internet Service Provider (ISP).

Il cyberspazio a livello commerciale nasce come territorio scevro da condizionamenti normativi e anzi si stabilisce che gli imprenditori-pionieri del web non debbano sopportare ulteriori alee oltre a quella già effettiva dell’avventura imprenditoriale on line. Si costruiscono così le autostrade digitali e poi le varie diramazioni e poi i servizi e poi le urbanizzazioni elettroniche in un crescendo di complessità tecnologica e di relazioni commerciali e soggettive. Il livello di complessità giunge a un punto in cui l’ingresso delle regole e della responsabilità non risulta ulteriormente procrastinabile.

Ecco dunque che anche il cyberspazio viene per quanto possibile sottoposto alla legge. Si distinguono così i casi in cui è possibile stigmatizzare la responsabilità del provider (ISP) perché Hoster attivo (ovvero soggetto che ha agito manipolando e controllando la Rete) dai casi in cui non esiste responsabilità perché l’Hoster è neutro (ovvero non ha manipolato o influenzato con la propria attività il territorio elettronico di sua competenza).

Se questo vale per il mondo degli adulti digitali non può essere ammesso per il mondo dei minori. Sulla scorta dei fenomeni adolescenziali registrati on line, emerge la necessità di passare da una visione in cui il minore viene concepito in un rapporto frontale con l’Internet a una visione in cui il minore venga considerato “Figlio dell’Internet”.

Esattamente come quando si vede un bambino per la strada in pericolo o abbandonato e il passante cerca di aiutarlo anche nel web quando un operatore si accorge del pericolo per il minore deve subito fare la segnalazione sulle hot line predisposte ad hoc e alla PolPoste. Adesso, nei fatti, i provider che prima professavano il principio della non responsabilità e dell’assenza di un obbligo di sorveglianza si sono formalmente impegnati a monitorare la Rete per ridurre i rischi per il minore. Ecco dunque che il minore diviene il figlio di Internet nel senso che quando viaggia on line è figlio di tutti gli operatori che lo incontrano e tutti devono aiutarlo e proteggerlo.

Alla luce di queste riflessioni si coglie l’obiettivo fondamentale del presente contributo che consiste non tanto nell’excursus dei vari casi di reato e di illecito ma consiste soprattutto nella volontà e nella speranza di favorire il passaggio da una cultura minorile digitale di tipo frontale (minori e Internet) a una di tipo integrato e olistico (minori “figli di Internet”).

 

I facilitatori dei “figli di Internet”

Nasce una nuova sensibilità: i minori “figli di Internet”. Nel corso degli anni l’unica istituzione a difesa del minore nel web è stata la Polizia Postale che si è dedicata costantemente al monitoraggio della Rete investigando sulla pedofilia, sulla pedo pornografia e sulla prostituzione minorile. Inoltre la PolPoste è andata nelle scuole coinvolgendo i minori e i loro genitori per far conoscere i rischi dell’Intenet e i rimedi per evitarli. Ora, proprio da questo grande lavoro e dal lavoro di associazioni che si sono accompagnate alla PolPoste in questo progetto a difesa dei minori on line, è nata una nuova sensibilità. Siamo passati da una fase in cui l’unico agente per contrastare il rischio è costituito dalla famiglia e dalla scuola a una fase in cui a questi pur importanti elementi si aggiunge la tutela apprestata da tutti gli operatori dell’Internet. Pertanto non solo la PolPoste, non solo i genitori, non solo la scuola, ma tutti gli stakeholders della Rete, provider inclusi, sono tenuti a proteggere il minore.

Pertanto potremmo chiamare questa nuova fase quella dei “figli di Internet”.

I facilitatori di questa nuova cultura digitale del minore hanno già al loro attivo interessanti iniziative e progetti.

La matrice di questa nuova cultura deve rintracciarsi nel programma europeo denominato “Safer Internet Program” nato a partire dal 2009. L’evoluzione di questa iniziativa produce a fine 2011, tra gli altri, un protocollo di intesa con tutti i maggiori stakeholders della Rete denominato “Better and Safer Internet for Kids”. Questo protocollo si fonda sull’autoregolamentazione accompagnata da azioni di formazione dei minori, delle famiglie e delle scuole in un sistema integrato e multistakeholders.

Nell’ambito del “Safer Internet Program” ciascun Stato Membro si dota del proprio centro di sicurezza nazionale denominato appunto “Safer Internet Centre” che in Italia è coordinato dal MIUR almeno per gli anni 2015-2016 ed è realizzato in collaborazione con Polizia di Stato, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Università degli Studi di Firenze, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Save the Children, Telefono Azzurro, Edi onlus, Movimento Difesa del Cittadino, Skuola.net, con il supporto di un Advisory Board allargato alla partecipazione delle Autorità Garanti per la Protezione dei Dati Personali e per la Comunicazione, dei Social Network e delle principali aziende di ICT e Telefonia Mobile.

In questa nuova ottica culturale “minori figli di Internet” emergono in Italia interessanti attività. Pensiamo alle “Linee di orientamento per azioni di prevenzione e contrasto al bullismo e al cyberbullismo”, del MIUR; pensiamo all’Osservatorio sul cyberbullismo oggetto del più ampio progetto “internet@minori@adulti” condotto da Co.Re.Com Toscana con l’Istituto degli Innocenti di Firenze; pensiamo infine alla fortunatissima iniziativa della PolPoste “Una vita da social” che ha riscosso un grande successo in tutta Italia.

Ancor prima della svolta UE, il nostro Paese aveva tentato un approccio integrato alla questione con il Codice di autoregolamentazione “Internet e Minori” del 2003. Questo protocollo di autodisciplina sottoscritto anche dai providers fallisce tuttavia per la mancata costituzione del Comitato di Garanzia e per la mancata applicazione pratica.

In corso di approvazione ulteriori documenti a carattere autoregolamentativo e normativo che si collocano nella stessa cultura “minori figli di internet”: pensiamo al Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo a cura del Ministero Sviluppo Economico; pensiamo al Disegno di legge “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del Cyberbullismo”, proposto da Elena Ferrara, Commissione straordinaria diritti umani di cui tratteremo al termine del contributo.

 

Il Difensore Civico Digitale

La filosofia della cultura “minori figli di Internet” ha promosso un’importante campagna di prevenzione introducendo attività di informazione/formazione; coinvolgendo tutti gli operatori della Rete in un’opera di monitoraggio mai vista prima; inducendo un approccio olistico, integrato e multistakeholders. Il progresso avviato è notevole però occorre osservare che si gioca tutto nella fase fisiologica della questione. Nella fase patologica non viene previsto nulla.

Sempre nello spirito di una cultura digitale minorile sistemica occorrerebbe prevedere un organo ausiliatore anche quando il danno ormai è già stato arrecato. Il minore ha necessità di essere aiutato non solo nella fase fisiologica del suo iter di consapevolezza tecnologica ma anche nella fase patologica. Altrimenti quell’abbandono tanto paventato si evita prima per poi ritrovarselo comunque dopo. Bene la prevenzione ma chi aiuta il giovane vittima di lesione della reputazione on line; vittima del cyberbullismo; vittima di molestie sessuali?

L’unica figura idonea si individua nella Polizia Postale e/o nel legale specializzato in diritto dell’Internet ma non tutti possono permetterselo. Allora perché non costituire un organismo tipo Difensore Civico che possa assumere la tutela del “nativo digitale”?

I gestori delle piattaforme web sono molto restii al dialogo e difficilmente rispondono alle richieste di rimozione o di deindicizzazione. Tuttavia se avessero un referente accreditato cui rispondere molto probabilmente attiverebbero un canale di comunicazione. Poniamo per ipotesi uno scenario in cui il referente accreditato sia il Difensore Civico Digitale e ove sia stato attivato un canale di comunicazione ad hoc con i maggiori gestori web. In un quadro siffatto il minore, vittima ad esempio di diffamazione on line, sottopone il proprio caso al Difensore Civico Digitale. Quest’ultimo procede a una disamina per vagliare la bontà o meno della richiesta difensiva e solo dopo aver verificato l’esistenza dei presupposti di tutela provvede a inviare l’istanza di rimozione al provider.

Un organismo di questo tipo presenterebbe diversi pregi: innanzitutto una forma di difesa del minore inesistente a tutt’oggi; una scrematura enorme delle pratiche; un organo di vigilanza; una fonte di orientamento delle decisioni assunte a livello di prassi.

 

Linee guida sul cyberbullismo

Better and Safer Internet for Kids”, prodotto dal più generale “Safer Internet Program” UE (decisione Parlamento e Consiglio 1351/2008/CE), è un protocollo di autoregolamentazione in cui i providers o gestori delle piattaforme on line si impegnano a rendere disponibili ai minori strumenti di segnalazione abuso ben visibili, semplici e immediati nell’utilizzo che abbiano una risposta altrettanto immediata da parte del gestore in termini di rimozione effettiva. Un’altra componente fondamentale del sistema di autoregolamentazione europea si sostanzia nella classificazione massiccia da parte dei providers di contenuti lesivi e nell’attività conseguente di espungerli dalla Rete ancor prima che possano essere raggiunti dal minore.

Pensiamo alle ultime attività di Google e di Microsoft in adempimento a questo protocollo europeo. Google sta sviluppando un algoritmo per bloccare la diffusione delle immagini di foto e video pedopornografiche in Rete. Ha bloccato oltre 100.000 termini di ricerca ricollegabili a contenuti illegali riguardanti minori, termini che una volta digitati sulla barra Search non condurranno più a nessun sito web. Microsoft in collaborazione con BigG ha sviluppato un sistema di riconoscimento facciale che permette di identificare immagini in cui i bambini sono vittime di abusi. Quindi anche se i veri pedofili non condividono le immagini tramite Google ma tramite siti di condivisione ai margini del web questa colossale operazione di monitoraggio della Rete renderà loro la vita più difficile.

In Italia questa disciplina europea viene applicata dal Centro Nazionale per la Sicurezza in Rete denominato “Safer Internet Centre” (SIC) di cui è coordinatore il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca).

L’Advisory Board del “Safer Internet Centre” italiano è costituito da un Consorzio Nazionale composto da: Polizia Postale, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Save The Children, Telefono Azzurro, Università degli Studi di Firenze, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Skuola.net, Movimento Difesa del Cittadino, Edi onlus, per sensibilizzare ed educare i più giovani. Il Safer Internet Center rientra nel programma Ue “Better and Safer Internet for Kids”.

Nell’ambito delle attività del Safer Internet Centre, sono state stilate a cura del coordinamento del MIUR le “Linee di orientamento per azioni di prevenzione e contrasto al bullismo e al cyberbullismo” dell’aprile 2015. Alla stesura del testo hanno partecipato 30 Enti e Associazioni aderenti all’Advistory Board dell’iniziativa Safer Internet Centre, coordinata dal MIUR (www.generazioniconnesse.it). Spiegare nel dettaglio questo documento implicherebbe una trattazione apposita, impossibile in questa sede. Tuttavia possiamo evidenziarne le raccomandazioni principali.

Una prima raccomandazione attiene all’importanza della segnalazione. Devono essere apprestati strumenti di avviso dell’illecito integrati tra loro e ridondanti. Vengono previste hot line dedicate al bullismo, al cyberbullismo e alla pedopornografia on line. Questi canali di comunicazione devono essere ridondanti (più vie: telefono, chat, sms, whatsapp, skipe) affinchè il minore possa scegliere quello più congeniale.

Una seconda raccomandazione attiene alla redistribuzione territoriale degli organismi competenti per il coordinamento delle attività di contrasto. Attualmente questo ruolo è ricoperto dagli Osservatori regionali che dovranno cedere il passo ai CTS (Centri Territoriali di Supporto) istituiti nell’ambito del progetto “Nuove tecnologie e disabilità” dagli Uffici Scolastici Regionali in collaborazione con il MIUR. I CTS appaiono maggiormente idonei allo scopo in quanto già ab origine costituiti per affrontare il problema della disabilità e del disagio a 360 gradi. I bulli come le loro vittime sono soggetti disagiati che necessitano dell’azione coordinata di tutta la comunità educante: Province, Comuni, Municipi, Servizi Sanitari, Associazioni Culturali, Centri di ricerca, di formazione e di documentazione.

La terza raccomandazione si concentra interamente sul ruolo della scuola quale primo soggetto di prossimità del minore. La scuola dev’essere potenziata per affrontare il grave problema del disagio e delle disabilità tecnologiche e personali del ragazzo mediante la formazione degli insegnanti all’utilizzo dei new media e dei social network affinchè possano meglio seguire gli alunni nella loro vita digitale. Il documento stabilisce espressamente che gli insegnanti dovranno aiutare i discenti a diventare dei buoni “cittadini virtuali”.

In questa ottica le scuole dovranno tenere lezioni di web sicuro all’interno di specifici moduli didattici da inserire nel piano dell’offerta formativa aggiornando in tal senso il regolamento scolastico con una sezione dedicata all’uso degli smartphone e dei pc.

 

I “nativi digitali” conoscono il loro ambiente?

I minori sono i “nativi digitali”. Il primo oggetto elettronico della loro vita è stato un dato scontato, come se l’avessero manovrato da sempre. Nei corpi biologici scorrono fiumi di bit: “loro, con l’Internet, ci sono nati”.

Puoi stupirti ammirato seguendo le acrobazie logiche di cui è capace un “nativo digitale” mentre “spippola” la tastiera del suo cellulare. Sembrano possedere il mondo in un click. Anzi sono convinti di padroneggiare il loro mondo con un click. Purtroppo però come sanno gli “immigrati digitali” (quelli che sono nati con la televisione e non con la Rete) niente è come sembra.

Il “nativo digitale” scopre a proprie spese che gli amici virtuali, a volte, hanno più del doppio della propria età: nella migliore delle ipotesi sono soggetti che vogliono spillare indebitamente dei soldi (suonerie per cellulare costosissime, abbonamenti inesistenti, ecc…); nella peggiore sono loschi individui dediti alla prostituzione minorile o peggio al mondo della pedopornografia o della pedofilia. Suadenti voci del web; sirene incantatrici che attraggono, seducono, rassicurano, consolano. Spire “amorevoli” lambiscono e pretendono. All’inizio si tratta di piccoli pegni di amicizia come una foto o un poke; poi innocenti gesti carezzevoli autoinflitti di fronte alla webcam; poi e poi e poi ancora in un progressivo crescente malinteso rapporto di fiducia, maschera di turpi relazioni di plagio e sottomissione.

Il “nativo digitale” scopre in Rete anche il crudo mondo degli amici reali. Compagni di scuola che dileggiano su Facebook; bulli e bulletti che ti fanno lo sgambetto e poi filmano la scena caricandola su Youtube; persecutori feroci che costruiscono profili social a tuo nome invitando gli utenti a condividere pesanti post sulle tue abitudini, sui tuoi orientamenti sessuali, sulla strana composizione della tua famiglia.

Il “nativo digitale” è abile con la tecnologia ma è altrettanto abile a schivare i rischi della vita? Le statistiche attestano che un minore è sempre un minore per quanto possa essere evoluto il suo stato tecnologico. A tal proposito si riporta uno stralcio di un’interessantissima ricerca commissionata da Save the Children I nativi digitali conoscono davvero il loro ambiente?”. Ricerca effettuata da IPSOS[1] per Save the Children, compiuta su un campione di ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni con metodologia CAWI dal 19 al 26 gennaio 2015 su un campione di 1003 adolescenti stratificato e casuale, selezionato in base a quote per sesso, età, area geografica.

L’identikit dei “connessi”: giovanissimi e “on-line”

Le “relazioni sociali” sono protagoniste delle loro interazioni: sempre di più i ragazzi che utilizzano Whatsapp (59% nel 2015, con un aumento di 39 punti percentuali dal 2013), cresce l’utilizzo di Instagram (36% nel 2015, con un aumento di 27 punti dal 2013) e diminuisce la loro presenza su Facebook (75% nel 2015, 12 punti in meno dal 2013), mentre meno di 1 su 3 utilizza Twitter (29%). Significativo anche l’uso delle App dedicate alla musica come Spotify (11%), con una percentuale di utenti quasi raddoppiata nell’ultimo anno.

Adolescenti connessi e senza paura: come si relazionano sulla Rete i nativi digitali

Preoccupante è il tipo di esperienze che questi ragazzi vivono sulla Rete: il 46% degli intervistati afferma che lui/lei o un amico/a ha scoperto che la persona incontrata in Rete non era di fatto quella che diceva di essere, esperienza vissuta direttamente per il 15% del campione. Il 35% degli intervistati afferma la ricorrenza di atti di cyberbullismo, nei confronti degli amici o di se stessi (9%).

Se da un lato questi ragazzi possono vivere situazioni di disagio utilizzando la Rete, una parte di loro sembra non percepire il relativo pericolo o non esserne totalmente consapevole. Ad esempio, solo per il 38% dei ragazzi le molestie via cellulare/email/internet rappresentano una minaccia. In più, la percentuale di chi sa che cos’è il pulsante “segnala abuso” su un social non supera il 59% e scende al 53% tra i 12 e i 13 anni.

Su Facebook, WhatsApp e altre App di messaggistica istantanea i comportamenti più “a rischio”

Le sorprese arrivano dall’utilizzo di applicazioni di messaggistica istantanea come WhatsApp, veri e propri social network, che non sempre vengono percepiti come tali dai ragazzi. Colpisce in particolare l’utilizzo dei gruppi di conversazione che possono essere creati grazie a questo tipo di App: il 28% degli intervistati partecipa ad oltre 10 gruppi e il 41% afferma di non conoscere personalmente tutte le persone che sono nei gruppi a cui partecipa. Quasi un adolescente su cinque non si pone alcun problema su che tipo di informazione o dati invia a questi gruppi, come ad esempio foto e video che li ritraggono personalmente o che ritraggono altre persone che conoscono, o messaggi vocali. Il 66% dei ragazzi non sa che su WhatsApp, ad esempio, non esiste la possibilità di bloccare qualcuno che gli dà fastidio all’interno di un gruppo.

Secondo il 33% degli intervistati sarebbe un fenomeno abbastanza comune tra i loro amici quello di darsi appuntamento di persona con qualcuno conosciuto solo in un gruppo WhatsApp o di App simili. Uno su tre sarebbe solito inviare dati personali, come il proprio nome, la scuola frequentata o l’indirizzo di casa ad un gruppo virtuale, frequentato anche da persone che non conosce. Infine, quasi uno su quattro – secondo quanto riportato dagli intervistati – invierebbe a questi gruppi messaggi con video e foto con riferimenti sessuali”. (“I nativi digitali conoscono davvero il loro ambiente?”. Ricerca effettuata da IPSOS per Save the Children, 19-26 gennaio 2015).

 

Like” è un’ammissione di corresponsabilità

I nostri “nativi digitali” escono malconci dalle statistiche sulla consapevolezza dell’ambiente elettronico che frequentano. Il dato maggiormente sconcertante si coglie in quel 38% che non percepisce come pericolo le molestie via cellulare/email/internet e comunque nella sicurezza malriposta di poter padroneggiare lo spazio comunicativo digitale. Pensiamo a quel 66% che non sa che su WhatsApp non esiste la possibilità di bloccare qualcuno che dà fastidio all’interno di un gruppo. Pensiamo ancora che i nostri “nativi digitali” non sanno come difendersi: lo attesta quel 41% che ignora l’esistenza del pulsante “segnala abuso” sui social network.

Un altro dato interessante che però non è stato vagliato dalla ricerca di Save the Children attiene alla consapevolezza dei bad boys sulle conseguenze delle loro azioni sul web.

I “buoni digitali” conoscono poco gli strumenti di tutela e i rischi da evitare. I “cattivi digitali” sono messi anche peggio perché ignorano del tutto le implicazioni giuridiche e giudiziarie dei propri atti. E’ chiaro che il cyberbullo se ne infischia delle regole ma coloro che guardano il video del misfatto o che addirittura appongono un “like” sanno che in quel momento diventano corresponsabili dell’illecito o del reato?

Il cyberbullo necessita di pubblico per le proprie gesta. Il fenomeno del cyberbullismo si manifesta quasi sempre nell’azione di uno che picchia, di altri che filmano e di altri ancora che guardano. Lo stesso si ripete in Rete dove c’è colui che carica il video e gli altri utenti che lo condividono, che mettono “like” o che semplicemente guardano. Tuttavia anche questi ultimi devono maturare la consapevolezza che agendo così si rendono corresponsabili del reato.

Lo stesso dicasi per un post lesivo: chi appone “like” si rende corresponsabile della diffamazione piuttosto che della violazione della privacy o di quant’altro sia stato commesso.