Le Virtù
«Il più potente è colui che ha sé stesso in proprio potere»
Seneca
Virtù dal latino virtus-ūtis=forza, coraggio, ovvero «disposizione naturale a fuggire il male e fare il bene, perseguito questo come fine a sé stesso, fuori da ogni considerazione di premio o castigo[1]». Ma anche dal greco ἀρετή=aretè, come disposizione mentale o «capacità di assolvere bene il proprio compito (…la bravura dell’‘eroe’) per designare il valore spirituale e la bravura morale dell’uomo[2]».
Quattro le virtù definite cardinali: Prudenza; Temperanza; Giustizia; Fortezza. Esse come ‘cardini’ rappresentano attitudini ferme, stabili e abituali dell’intelligenza e della volontà. Regolano azioni, ordinano passioni guidando la condotta secondo la ragione del bene comune. L’uomo virtuoso, quindi, è colui che liberamente sceglie il bene «fuori da ogni considerazione di premio o castigo», quale fine ultimo da raggiungere, essendo questo desiderabile in quanto giudicato opposto al male.
Sono le virtù, o habitus boni, altrimenti definibili ‘buone abitudini’, che istruiscono e rafforzano l’‘essere’ o meglio il ‘valore dell’essere’. Difatti ogni virtù è deputata, secondo Tommaso d’Aquino, a salvaguardare l’agire umano: «la prudenza per l’intelletto, la giustizia per la volontà, la fortezza per l’appetito irascibile, la temperanza per l’appetito concupiscibile. Infatti, per agire bene noi dobbiamo anzitutto scegliere i mezzi adatti (prudenza); poi salvare i diritti altrui (giustizia); difendere la propria persona e i propri beni contro i vari pericoli (fortezza); e conservare la giusta misura nell’uso dei beni esteriori (temperanza). In questi quattro beni, che sono oggetti delle quattro virtù cardinali, è contenuto il bene morale[3]».
Ogni virtù è quindi accompagnata e sostenuta dalle altre. Alla Prudenza, detta anche auriga virtutum[4], cioè cocchiere delle virtù, il compito di dirigerle, indicando loro regola e misura, da qui il suo essere genitrix virtutum[5], ossia guida e madre, affinché queste arrivino al loro atto principale, ovvero il comportamento retto. Continuando il pensiero di d’Aquino[6] la prudenza è la «retta norma dell’azione», un’attitudine che «valuta ciò che è bene per l’uomo», una sorta di «saggezza pratica» che permette di agire rettamente, adempiendo prontamente al suo significato di ‘chi ha la ragione sana’ (letteralmente ‘chi ha la ragione salva’). Concretamente la prudenza consiste nel discernimento, cioè nella capacità di distinguere il vero dal falso e il bene dal male. È la prudenza che permette di preordinare la condotta affinché si possa realizzare la temperanza e con essa la giustizia.
Alla Temperanza spetta il compito di moderare l’attrattiva verso i piaceri sensibili, affinché ci possa essere equilibrio nell’uso della materia. È, infatti, la virtù che si pone in antitesi alla lussuria poiché è «determinata secondo un criterio precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio[7]». Essa riguarda innanzitutto la relazione con sé stessi, il sapere stare nel «giusto mezzo» in tutte le proprie azioni, è una virtù morale che permette di regolare con saggezza ed equilibrio il soddisfacimento dei desideri naturali. Per usare le parole di Cicerone «come ornamento della vita, la temperanza e la moderazione, vale a dire il pieno acquietamento delle passioni e la giusta misura in ogni cosa[8]».
Sta, pertanto, nella ricerca e nella scelta della «aurea mediocritas[9]», non traducibile con aurea di mediocrità, come la traduzione letterale nella lingua italiana parrebbe indicare, ma come la lingua latina impone aurea di moderazione o aurea via di mezzo, una regola d’oro, una via ottimale che passa attraverso il rifiuto di ogni eccesso o smoderatezza. Il «giusto mezzo», che permette all’Essere, di godere appieno dei piaceri della vita assicurandosi, nel contempo, il dominio della volontà sulle pulsioni. Acquisizione di dominio che salvaguarda dal vuoto della ragione, dal vuoto del senso del limite, dal vuoto di amore.
«Giusto mezzo» che ci riporta alla Giustizia ovvero «virtù di natura sociale sancita per natura[10]», altrimenti detta principio regolatore, antropologico di natura ontologica, che garantisce la coesistenza sociale essendo essa l’insieme di azioni giuste, capaci di promuovere la simmetria tra le parti. È la giustizia che penetra l’intelletto aprendolo all’alterità dell’altro, come ebbe a ricordare sempre d’Aquino il «compito proprio della giustizia, tra tutte le altre virtù, è di ordinare l’uomo nei rapporti verso gli altri». Riguarda, quindi «le operazioni con le quali l’uomo non solo viene ordinato in sé stesso, ma anche in rapporto all’altro[11]».
Prudenza, temperanza e giustizia sono sostenuti dalla Fortezza. Ovvero la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Intrinsecamente legata al coraggio è disposta alla rinuncia e al sacrificio pur di difendere una giusta causa. Essa infatti assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza della ricerca della giustizia, ovvero quella disposizione dell’anima volta al bene, ma anche quella ‘fortezza interiore’ capace di fronteggiare i pericoli e di sostenerne la fatica. La capacità di affrontare l’incerto, il sacrificio mantenendo fermo lo sguardo sul valore morale della meta, al fine di raggiungere, in sostanza, un “modo perfetto d’essere”. Lungi dall’essere stupidità o incoscienza la fortezza sostiene il coraggio e dialoga con la paura, nel proseguire la sua via, riconoscendo che la meta preposta è più importante del rischio corso o del prezzo da pagare.
In conclusione, è l’azione regolatrice e preservatrice delle virtù che concretizza il ‘dominio dell’uomo su sé stesso’, designando così «il valore spirituale e la bravura morale dell’uomo», affinché egli padroneggi la «capacità di assolvere bene il proprio compito». A patto però che egli sia disposto non solo a custodirle dentro di sé, ma come ebbe a ricordare Platone «Tutte le qualità buone e belle devono essere tenute in esercizio e la saggezza non meno delle altre[12]».
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https://www.treccani.it/vocabolario/virtu/ ↑
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https://www.treccani.it/enciclopedia/arete/ ↑
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Cfr. 2. Summa Theologiae, I-II, q. 61. ↑
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II Sent., d. 41, q. 1, a. 1, ob. 3. ↑
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Tommaso D’Aquino, In III Sententiarum, dist. 33, q. 2, a. 5. ↑
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Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica nicomachea di Aristotele: libri 6-10, pag. 36, Edizioni Studio Domenicano, 1998. ↑
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Idem ↑
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De officiis, Cicerone ↑
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Le Odi, Orazio ↑
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Ulpiano nel Digesto ↑
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Reginaldo M. Pizzorni: Diritto, etica e religione. Il fondamento metafisico del diritto secondo Tommaso d’Aquino. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006. ↑
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Senofonte, Memorabili, 1.2.23 ↑