L’appello

 In SegnaLibro, N. 2 - giugno 2021, Anno 12

Alessandro D’Avenia – L’appello. Mondadori 2020

«Salvare un nome. […]. Sino a che non lo identifichi e non gli dai un nome, un fenomeno non esiste. L’appello è la formula completa che salva il mondo. A voi la scelta se essere dei fenomeni unici o dei fenomeni da baraccone: tutti uguali e utili soltanto a fare ridere la gente. Le dittature mirano ad eliminare le differenze, nelle dittature infatti si usano tante uniformi e spariscono i nomi propri» (pp. 33-34).

Uno dei primi capolavori della storia è un appello: la Caverna delle Mani nella valle del fiume Pinturas, in Patagonia. Il graffito, raffigurato diecimila anni prima la venuta di Cristo, rappresenta delle mani alzate, mani di adolescenti impresse sulle pareti come firme del loro passaggio dall’infanzia alla maturità, una traccia di sé, una venuta al mondo, la loro presenza. L’appello è il nuovo romanzo dell’insegnante-scrittore Alessandro D’Avenia (Palermo, 1977), con cui porta alla luce un manifesto di una scuola nuova, una scuola che unisce l’apprendimento alla cura dello studente. Nello scorrere delle pagine il lettore è guidato a scorgere il vero senso del fare scuola, non orientata alla produzione e all’omologazione, bensì all’umanizzazione del mondo e di chi vi abita, una scuola che unisca il Saper Essere al Saper Fare.

Il pensiero dell’autore è immerso nella storia del protagonista del romanzo Omero Romeo, docente precario divenuto cieco e dei “suoi” dieci studenti Caterina, Mattia, Stella, Ettore, Elisa, Cesare, Elena, Oscar, Achille, Aurora, portatori di storie tessute di drammi, dolori, assenze, ognuno con un alibi per non affrontare la vita, visti ma non riconosciuti da genitori e insegnanti. Omero Romeo è il professore chiamato a condurre la classe-ghetto all’esame di maturità, è colui che restituirà agli studenti la presenza, l’attenzione, un nome. Il nome ci viene consegnato dai genitori, un nome con cui veniamo riconosciuti, chiamati, amati. Ma se ciò non accade finisce che veniamo spinti a vergognarci di quel nome come di noi stessi, finché l’altro non ci vede, non ci riconosce, restiamo indifferenti, rimaniamo individui e non persone. Il problema che attanaglia questa classe, questi dieci studenti, è frutto di un sistema scolastico e sociale complesso, autoreferenziale, carente di ascolto, una società fatta di tante isole e dove si coltiva solo solitudine. Viviamo relazioni social, ma sempre meno sociali, quindi sempre meno umane, vediamo ma non sentiamo.

L’appello del professore Omero Romeo nasce dall’esigenza di conoscere i suoi alunni senza poterli vedere, è la forma con cui egli intesse la relazione con loro: ne chiama uno ad uno per nome e tocca il loro viso, ogni giorno insieme alla presenza essi sono chiamati a rispondere secondo il loro stato d’animo, la loro passione, i loro dolori etc. Ciò avviene ogni prima mezz’ora di scuola. Questa routine dimostra agli studenti di essere delle persone chiamate a rispondere alla Vita, unisce il fare scuola con il farsi persona. Il modo inedito di fare insegnamento del protagonista trasforma (in quanto forma) il modo di essere degli studenti che, nel corso del romanzo divulgano l’appello fuori dalla classe, fuori dalla scuola e, grazie ai social media in tutto il sistema scolastico italiano. La scuola dell’appello è «una scuola in cui ogni giorno il tuo nome viene detto da persone che lo tengono al sicuro e lo sfidano fino a che comincia a brillare. […]. È un posto in cui si fatica tanto, ma in cui ogni fatica ha una gioia come contrappeso perché diventare grandi è bello, non è una fregatura» (p. 117).

La scuola non dovrebbe essere la somma di istruzione e prestazione, che riduce l’apprendimento a un mero processo di memoria e ripetizione. La scuola dovrebbe insegnare, ossia segnare lo studente, ferirlo e da quella ferita tirar fuori l’apprendimento trasformato dallo sguardo dell’alunno. Ciò si crea solo nella relazione in cui l’insegnante segna, ma allo stesso tempo educa, in una reciprocità che dona vita e sapere, conoscenza e amore. Non si può insegnare a nessuno se non lo si conosce nella sua interezza, la conoscenza che non serve a prendersi cura di sé e del mondo non è conoscenza, ma violenza.

La rivoluzione dell’appello è un risveglio non una guerra, non rinuncia alla vita, gli studenti non saltano lezioni o fanno scioperi, ma animano la classe e l’intero sistema scolastico. L’appello è il modo in cui l’autore propone e auspica una riforma della scuola che rappresenti e formi studenti e docenti: «Insegnanti, docenti e professori si chiamano Maestri. Ogni Maestro deve possedere tre requisiti: Sapienza, cioè amare e conoscere ciò che insegna; Empatia, cioè amare e conoscere le persone a cui insegna; Passione, cioè trovare il modo di adattare ciò che insegna a chi lo insegna» (p. 298).

Solo dando loro un nome le cose rispondono con la piena presenza. Riscoprire il valore delle parole significa donare la vera libertà all’Uomo e alle cose del mondo. I nomi propri, i nomi con significato salvano l’umanità dall’indifferenza. Viene da chiedersi perché i nomi (e con esse le parole) vengono mistificate? Fanno forse paura? «E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenza, la vita si spegne. Per questo c’è bisogno di un nome proprio. Lo sanno i bambini che imparano a parlare: nominano ogni cosa, anche quando è superfluo, per darle vita, perché il nome che hanno scoperto o inventato è la vita di quella cosa. […]. Al contrario dimenticano i nomi propri tutti gli uomini e le donne che non amano la vita. Ogni forma di appello è loro nemica: la sostituiscono con numeri e nomi comuni» (pp. 325-326).

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