L’agito aggressivo: la gestione della situazione di crisi
Le precedenti riflessioni inducono a ritenere che un’adeguata modalità di approccio a situazioni di crisi non possa prescindere dalla comprensione del «senso dell’agire violento» (Ceretti, 2011, p. 6), secondo il modello criminologico proposto dallo studioso statunitense Lonnie Athens e recentemente ripreso da Ceretti e Natali (2009). Detta prospettiva teorica suggerisce una prudente interpretazione dei processi sottesi alle «esperienze sociali violente, al di là di una rigida distinzione fra normalità e psicopatologia, e tra individuo e società» (Ceretti, 2011, p. 6). L’intento è quello di superare il rigido determinismo tra malattia mentale e reato, unitamente alla logica semplificatrice che vede l’atto violento quale prodotto necessario di una società violenta, in favore della ricostruzione di «itinerari interpretativi (…) a partire dalla prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di “senso” in una certa misura intellegibili e avvicinabili» (Ceretti, 2011, p. 6). A tal proposito, l’Autore introduce il concetto di «soliloquio» con riferimento a quel dialogo ideale che il soggetto intesse con la sua «comunità-fantasma» ‑ una sorta di «parlamento interiore» costituito dagli Altri significativi ‑ che, nel Sé dell’attore violento, è composto da interlocutori sostenitori della violenza quale modalità di risoluzione dei conflitti interpersonali (Ceretti, 2011).
Recenti studi scientifici sembrano militare in favore di un siffatto modello esplicativo allorché negano l’esistenza di un nesso di causalità diretta tra disturbo mentale e condotta violenta: quest’ultima sarebbe, infatti, il risultato di una caratteristica temperamentale o di personalità preesistente al disturbo stesso, divenuta incontrollabile a causa della condizione morbosa (Biondi, 2005). Analogamente, il tradizionale paradigma sociologico ‑ polarizzato sull’identificazione delle sole componenti macrosociali nella genesi dell’agito violento e, più ampiamente, criminoso – ha dimostrato la sua insufficienza, soprattutto in relazione alla differente soglia di vulnerabilità soggettiva ai fattori ambientali potenzialmente sfavorevoli (Ponti, 1999), preconizzando la necessità di un approccio integrato, individuale e sociale, anche per la comprensione del fenomeno di cui si tratta.
L’incontro ideale con l’attore violento ‑ mediante l’analisi del percorso individuale che lo ha condotto a selezionare l’azione violenta come modalità risolutiva del conflitto in atto[11] (Ceretti, 2011) ‑ potrebbe essere così anticipato dalla fase valutativa, sede privilegiata per una ricostruzione criminogenetica e criminodinamica dell’evento delittuoso, alla fase precedente dell’acting out auto e/o eteroaggressivo. Evidentemente, ciò richiederebbe l’elaborazione di modelli teorico-interpretativi per categorie omogenee di condotte violente e, successivamente, lo sviluppo di protocolli operativi corrispondenti. Non di rado, infatti, la gestione di situazioni critiche è rimessa all’esperienza professionale dell’operatore e alle sue capacità individuali. Le significative percentuali di episodi di violenza fisica in danno di personale medico e paramedico all’interno di strutture psichiatriche ad alta sicurezza e reparti di emergenza psichiatrica, come riportato dalla letteratura internazionale, hanno richiesto l’elaborazione di modalità di intervento a breve termine in situazioni critiche ‑ c.d. short-term management (Nivoli, Lorettu & Sanna, 1999) – che potrebbero essere validamente applicate anche in contesti operativi differenti, principalmente attività di polizia: in tal caso, tuttavia, le peculiarità di settore imporrebbero una serie di necessari «aggiustamenti» del protocollo, sia sul piano operativo che deontologico. L’intento è quello di implementare le conoscenze acquisite dagli operatori di polizia nel corso della propria formazione professionale, tenendo conto dell’assenza, allo stato attuale, di un protocollo standardizzato per ciascun tipo di intervento. All’interno di una simile cornice di riferimento, l’attribuzione di significato alla condotta aggressiva potrebbe costituire un valido strumento metodologico per la predisposizione di più efficaci strategie di contenimento e di neutralizzazione sia dell’agito violento che del suo autore.
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