La vittimizzazione secondaria
Dubbia è l’etimologia di vittima[1], ma trattasi per certo di concetto molto risalente nel tempo, legato alle pratiche sacrificali attuate da quasi tutti i popoli dell’antichità e che, nel tempo, è stato sottoposto a studi ed approfondimenti sotto molteplici profili. Da un punto di vista prettamente giuridico, la figura della vittima o persona offesa del reato è stata per lungo tempo oggetto di scarsa attenzione. Tale disinteresse è retaggio della concezione Medievale, allorquando il reato veniva visto come una minaccia alla pace sociale e di conseguenza la giustizia penale divenne monopolio dello Stato. In tale contesto la vittima, ridotta a mera condizione dell’azione delittuosa, veniva per lo più esclusa dal processo penale, i cui unici ed incontrastati protagonisti erano lo Stato e il reo. Tale situazione perdurerà immutata per secoli, fino all’Illuminismo, allorquando si pose l’attenzione sulla persona offesa dal reato e sulla sua tutela. Fa seguito, sulla stessa scia, l’insegnamento della Scuola Positiva alla quale va riconosciuto il merito di averle attribuito la giusta dignità giuridica, annoverandola tra i protagonisti della giustizia penale, accanto allo Stato e al reo.
La vittima del reato occupa un ruolo da protagonista nella società contemporanea e per rendersene conto è sufficiente porre l’attenzione sulle notizie presentate quotidianamente dai mass media. Da un punto di vista mediatico è sicuramente una figura sovraesposta, spesso abusata, pertanto capace di attrarre l’attenzione del pubblico in maniera direttamente proporzionale alla gravità del reato in cui è coinvolta.
Viene spontaneo chiedersi se, a fronte della spasmodica attenzione mediatica, sussista un altrettanto adeguato interessamento prestatole dall’ordinamento giuridico, stavolta con finalità di tutela.
Ad onor del vero solo negli ultimi decenni l’ordinamento giuridico si è compiutamente occupato della vittima da reato, ponendola al centro di uno studio interdisciplinare finalizzato tanto alla prevenzione dei fenomeni di vittimizzazione sia primaria che secondaria, quanto alla contestuale ricerca ed attuazione di ogni idoneo strumento di tutela in suo favore.
Spesso si ignora come la vittima subisca non solo le conseguenze direttamente connesse al reato stesso e dipendenti da elementi intrinseci alla fattispecie criminosa[2], ma anche quelle indirettamente connesse al reato e discendenti dall’impatto della vittima con l’apparato giudiziario. Le prime sono normalmente ricondotte nell’alveo degli effetti di vittimizzazione primaria, espressione utilizzata per far riferimento al complesso delle conseguenze pregiudizievoli di tipo fisico, psicologico, economico e sociale, prodotte sulla vittima direttamente dal reato subìto, variamente modulate in relazione all’età, al sesso, alla predisposizione genetica e alle caratteristiche psicologiche di ciascuno.
Le seconde sono invece effetto di vittimizzazione secondaria, vale a dire quelle conseguenze negative dal punto di vista emotivo e relazionale, derivanti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni in generale, e quello della giustizia penale in particolare (Bandini T., 1991). Troppo spesso succede che le vittime diventino tali una seconda volta per effetto dei metodi usati nei loro confronti dalle forze di polizia e degli appartenenti al sistema giudiziario.
Come è naturale che sia, il rischio di vittimizzazione secondaria è tanto più elevato quanto più ci si trovi al cospetto di vittime particolarmente deboli, quali ad esempio i minori, i minorati mentali e/o fisici o le vittime dei reati sessuali. In via generale è rischioso sottovalutare gli effetti della vittimizzazione secondaria in quanto, in alcuni casi, i suoi effetti possono essere addirittura più pregiudizievoli di quelli della vittimizzazione primaria e ciò in quanto, essendo prodotta dal contesto istituzionale stesso, viene a frustrare le aspettative di tutela e assistenza che la vittima di un reato legittimamente vanta nei confronti dello Stato, per antonomasia soggetto deputato a difenderla.
Vittimizzazione secondaria
In altri termini, le vittime possono diventare tali una seconda volta: non di rado accade che le persone offese dal reato siano costrette a ripetere più volte le narrazioni dolorose relative al reato, al fine di verificare la loro credibilità e moralità, nonché la personalità del reo (Comparin S., 2005); per di più, se a distanza di tempo non ricordano dettagliatamente i fatti, le dichiarazioni in primo tempo dolorosamente rilasciate, potranno essere censurate. Emerge, pertanto, come la vittima di reato non solo sia una persona lesa nei suoi diritti e, spesso «impotente e dimenticata nei meccanismi della giustizia penale, attonita ed estranea ai ritmi processuali relativamente ai quali non ha poteri di sorta, e che anzi talvolta le appaiono addirittura incomprensibili ed ostili» (Bandini T., 1991).
Proprio in sede sovranazionale è stata data una prima concreta attuazione agli insegnamenti della vittimologia, la quale, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, abbandonato l’iniziale approccio eminentemente teorico, ha cominciato a svolgere un’attività di rivendicazione politica e sociale, volta all’ottenimento di veri e propri interventi concreti a sostegno delle vittime (Saponaro A., 2004; c.d. vittimologia dell’azione). Infatti, prima dell’inizio della produzione di testi internazionali aventi ad oggetto la protezione delle vittime, gli interventi dei legislatori nazionali a favore di quest’ultime sono stati sporadici e per lo più circoscritti ad un numero assai limitato di Paesi. L’attenzione delle organizzazioni sovranazionali per la vittima del reato si è poi nel corso degli anni molto intensificata, specie con il diffondersi di una criminalità di dimensioni transnazionali, la quale colpisce di frequente soggetti particolarmente vulnerabili e dunque, secondo gli insegnamenti della vittimologia, bisognosi di una particolare protezione ed assistenza.
In tema di vittimizzazione secondaria uno dei contributi sovranazionali più significativi è stato rilasciato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1985 con la “Dichiarazione dei principi basilari della giustizia per le vittime di reato e abuso di potere” (UN, 1986; risoluzione annuale 40/34). Primo ufficiale tentativo di definizione di una tutela effettiva alle vittime di reato: significativo che le Nazioni Unite evidenzino, nella prima sezione, come la vittima di reato sia una persona, sola o collettivamente intesa, che ha subito una sofferenza, non solo fisica, ma anche psicologica. Conseguentemente la vittima può subire perdite economiche determinate da atti per lo più omissivi delle istituzioni, pertanto dovrà essere risarcita del danno subito nel più breve periodo possibile e con la minima sofferenza. Compito di ogni ordinamento sarà quello prioritariamente di informare la vittima dei suoi diritti oltre ad intraprendere qualsiasi iniziativa utile a facilitare e migliorare la posizione di quest’ultima, soprattutto informandola in sede processuale su quello che è lo stato della conduzione delle indagini.
In via succedanea, anche in sede europea si sono, poi, delineati strumenti di tutela della vittima di reato: la ratio ispiratrice di detti testi s’individua nella necessità di potenziare ed armonizzare nei Paesi dell’Unione europea gli strumenti di protezione delle vittime; necessità che diviene impellente alla luce del costante aumento nell’aerea europea del numero delle vittime di reato – spesso provenienti da Paesi diversi da quello di commissione del fatto criminoso – quale connaturale conseguenza della rimozione delle frontiere interne e della creazione di uno spazio unico ove i cittadini europei possono circolare liberamente. I testi normativi finora prodotti dall’Unione europea in materia di tutela della vittima possono essere suddivisi in due diverse categorie: da un lato quelli che si occupano della protezione della vittima in via generale[3] e dall’altro, quelli che riguardano la tutela delle vittime di specifici reati[4],in particolare lesivi dell’integrità fisica e morale delle persone, specie quelle più vulnerabili (per esempio, lo sfruttamento e l’abuso sessuale dei minori e la tratta di esseri umani).
La situazione, nel panorama italiano, è mutata sensibilmente con la riforma del 1988 che ha determinato il passaggio da un processo di tipo inquisitorio ad uno di tipo accusatorio. Con il nuovo codice di procedura penale, di fatti, abbiamo potuto constatare come alla vittima di reato, almeno dal punto di vista formale e teorico, siano riconosciuti una serie di diritti prima di allora estranei (Correra M., Riponti D., 1990). Diritti e disposizioni normative di maggior tutela, qui di seguito analizzate, e tuttavia significative in quanto volte a schivare il fenomeno della vittimizzazione, primaria, più di tutto secondaria.
Ordinamento italiano e strumenti di tutela
Ad occhio attento non può sfuggire che i nostri Padri Costituenti non abbiano fatto alcun riferimento alla vittima di reato. Tuttavia, il silenzio della nostra Carta fondamentale non lede lo status delle vittime sotto aspetti di sicuro rilievo costituzionale specie per i diritti inviolabili dell’uomo e dei principi di dignità ed eguaglianza consacrate agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Scendendo ancor più nel dettaglio e vagliando le norme del diritto processuale penale italiano, è dato cogliere il cambiamento di rotta realizzato dal legislatore del 1988 rispetto a quello del 1930 nell’offrire un’adeguata tutela alla persona offesa.
In estrema sintesi, secondo le disposizioni del codice Rocco (1930), la persona offesa è un soggetto al quale il sistema non riconosce diritti e ciò sulla falsariga del modello accusatorio allora vigente, per cui l’attività del magistrato doveva essere il più possibile svincolata dalla collaborazione dei soggetti del contraddittorio processuale.
Nel corso del secondo dopoguerra, anche in conseguenza dell’affermazione delle diverse dottrine delineatesi nella vittimologia, hanno iniziato a diffondersi, a pieno titolo, richieste di attribuzione di un giusto ruolo alla persona offesa, nell’ottica di un più generale interesse per la vittima del reato e per i suoi bisogni di tutela. Inoltre, sempre in tale frangente storico anche i diversi organismi internazionali hanno manifestato un deciso interessamento alla materia, tanto da dar corso, come sovra evidenziato, alla produzione di un numero considerevole di fonti sovranazionali dedicate alla protezione della vittima, con attenzione pure al suo ruolo processuale[5]. Tutto ha permesso un decisivo e definitivo allontanamento dal modello ispirato ai sistemi di common law, ove l’offeso rivestiva un ruolo del tutto marginale sia nella fase investigativa sia in quella processuale vera e propria.
Nel sistema processuale italiano di fine secolo scorso[6] la persona offesa ha smesso i panni di pura comparsa all’interno del procedimento penale per diventarne autonomo soggetto. Al processo penale non viene più solamente riconosciuta come finalità l’esercizio dello jus puniendi da parte dello Stato e la tutela dei diritti fondamentali dell’imputato, ma anche la protezione della vittima. Iniziano ad essere normativamente riconosciuti all’offeso una serie di diritti processuali, tradizionalmente inesistenti, volti a valorizzarne il ruolo.
Dà testimonianza di tutto ciò il fatto che nel nuovo codice ad essa viene riservato un titolo apposito (il titolo VI del libro I), distinto da quello dedicato alle parti private diverse dall’imputato.
Il legislatore del 1988 statuisce all’art. 90 c.p.p. che: «La persona offesa dal reato, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge, in ogni stato e grado del procedimento può presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare gli elementi di prova[7]».
Per meglio comprendere il ruolo della persona offesa è opportuno distinguere tra la fase delle indagini preliminari e quella dibattimentale. Nella prima sono ad esso attribuiti importanti poteri d’impulso, di partecipazione e di controllo, a testimonianza del nuovo e più incisivo ruolo che il legislatore gli ha voluto riconoscere. Più nello specifico è riconosciuto alla persona offesa: la facoltà di presentare, in ogni stato e grado del procedimento, memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, di indicare elementi di prova (art. 90 c.p.p.); il diritto di ricevere l’informazione di garanzia e nominare un difensore (artt. 369, 101 c.p.p.); il diritto di proporre querela o istanza di procedimento (artt. 336, 341 c.p.p.); il diritto di partecipare agli accertamenti tecnici non ripetibili disposti dal P.M. e di esaminare i relativi atti al momento del deposito (artt. 360, 366 c.p.p.); il diritto di chiedere al P.M. l’incidente probatorio (art. 394 c.p.p.); il diritto di partecipare all’incidente probatorio; il diritto di partecipare all’udienza in camera di consiglio disposta dal gip che non intenda accogliere la richiesta del P.M. di prorogare il termine per le indagini preliminari (art. 405, 5° c. c.p.p.); il diritto di ricevere notifica della richiesta di proroga del termine di durata delle indagini preliminari formulata dal pubblico ministero, laddove abbia dichiarato di volere essere informata (art. 406); il diritto di essere ascoltata all’udienza in camera di consiglio disposta dal gip. che non ritenga di accogliere la richiesta di archiviazione del P.M. (art. 409, 2° c. c.p.p.). Inoltre è prevista la facoltà di richiedere che non si proceda all’archiviazione senza avvisarla e di presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari (artt. 408, 411 c.p.p.); la facoltà di chiedere al procuratore generale di disporre l’avocazione delle indagini preliminari (art. 413 c.p.p); può ricevere, a sua richiesta, comunicazioni delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.); infine può beneficiare delle investigazioni difensive (ex art. 327 bis c.p.p.).
A fronte di tale molteplicità di diritti e facoltà riconosciuti durante la fase delle indagini preliminari, nella fase processuale, invece, la situazione è completamente capovolta, poiché i poteri della parte offesa che non si costituisca parte civile sono considerevolmente ridotti. Infatti, in questa fase la persona offesa può solo continuare a presentare memorie e ad indicare elementi di prova, partecipa al dibattimento come semplice spettatore, potendo però intervenire per rendere testimonianza. Solo con la costituzione di parte civile la parte offesa diventa protagonista del processo.
Dalle norme appena richiamate emerge la sussistenza, nel nostro ordinamento giuridico, di un sistema di tutela ad ampio spettro, rivolto a salvaguardare la persona offesa da reato sotto tutte le angolature che la sua eterogenea figura tende a schiudere, soprattutto durante la delicatissima fase delle indagini preliminari.
Ciò si inserisce, a pieno titolo, nella realizzazione di appositi e mirati strumenti di aiuto che il legislatore ha voluto predisporre a tutela della vittima del reato. Infatti, attraverso la previsione di così pregnanti poteri di impulso e di controllo sullo svolgimento del procedimento, le istituzioni concretizzano un efficiente apparato di tutela a favore della persona offesa, strumenti parte dei cd mezzi di tutela ex post in quanto destinati ad operare successivamente alla commissione di un reato e finalizzati a proteggere la vittima nel processo e dal processo, nonché a soddisfare tutte le sue legittime aspettative nei confronti del reo e dello Stato.
In definitiva quanto più il sistema processual-penalistico è capace di riconoscere alla vittima uno status soggettivo di rilievo nel processo penale, tanto più lo stesso sistema sarà capace di prevenire e contrastare gli effetti della vittimizzazione secondaria.
Il difensore della persona offesa dal reato
Nel contesto appena delineato e soprattutto in un’ottica di prevenzione della vittimizzazione secondaria, svolge un ruolo essenziale, la figura del difensore della persona offesa, in quanto soggetto avente l’obbligo, morale prima che deontologico e contrattuale, di ergersi a difesa degli interessi e dei diritti del suo assistito. Il ruolo del difensore è innanzitutto di natura assistenziale, prestando egli una collaborazione di natura tecnica, in tal modo bocca e l’orecchio “giuridico” del cliente[8]. In tale prospettiva egli svolge anche un ruolo di rappresentanza, ponendosi in sostituzione dell’interessato nell’esercizio di diritti e facoltà che la legge riconosce. Il compito ultimo del difensore è quello di assicurare la migliore tutela dell’interesse del proprio cliente, affinché la decisione del magistrato sia sempre conforme a giustizia, principio, questo, valevole per tutti gli ambiti in cui il professionista è chiamato a prestare la propria attività.
È prioritariamente nello specifico settore processual-penalistico che il difensore deve saper fornire la migliore difesa possibile, prestando attenzione ad ogni particolare, e contestualmente svolgendo un severissimo e penetrante controllo di legalità degli atti compiuti da chiunque possa agire nel procedimento penale e che possono avere delle conseguenze sulla posizione del cliente, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria.
A tal fine, sin dalle primissime fasi di commissione di un reato è fondamentale il contributo che solo un esperto conoscitore delle leggi può offrire, quale soggetto capace e munito di adeguato bagaglio tecnico. Spetterà al difensore, difatti, orientare la persona offesa dal reato, svolgendo una congrua e mirata attività di iniziativa (con la proposizione di una corretta denuncia-querela, peculiarmente nel merito oltre che nella forma), dirigendone successivamente l’esito in modo favorevole al proprio assistito, attraverso il compimento di atti propulsivi, di cooperazione, di impulso per la celere definizione, capaci di incidere sull’esercizio dell’azione penale e quindi sull’apertura del procedimento (depositando istanze, sollecitando le indagini, chiedendone l’avocazione, opponendosi alla richiesta di archiviazione, svolgendo indagini investigative difensive, ecc.). E, durante la delicatissima fase delle indagini preliminari, interloquire con la Pubblica Accusa, in modo da dare concreto impulso all’azione penale. La presentazione della denuncia-querela rappresenta solo il primo tassello di un articolato puzzle in cui tutti i pezzi devono essere incastrati nel modo utile ai fini del completamento dell’opera. La tutela della vittima ed il ripristino, almeno parziale, del senso di giustizia infranta dalla commissione del reato.
Occorre in primo luogo esaminare la facoltà della vittima di dare notizia del reato mediante denuncia alle autorità competenti (pubblico ministero, polizia giudiziaria o altro soggetto che sia obbligato a riferire a questi ultimi ex lege). Facoltà che è propria di qualunque soggetto che venga a conoscenza di un illecito penale e differisce, come è noto, dal potere di querela, ovvero di manifestare la volontà che si proceda penalmente nei confronti dell’autore del reato, cui è subordinata la stessa procedibilità di alcuni reati di minore allarme sociale.
La denuncia non comporta particolari formalità; la querela, invece, esperibile entro il termine di tre mesi dal fatto o da quando se ne è avuta conoscenza, esige che sia manifestata la volontà della vittima o degli aventi diritto di procedere punitivamente nei confronti dell’autore del fatto.
Nonostante la legge non ponga l’obbligo dell’assistenza legale nella proposizione della denuncia querela, ciò non toglie che, per i motivi già sopra sinteticamente enunciati, nello svolgimento di tale attività sia dirimente la figura dell’avvocato il quale, proprio per le sue conoscenze tecniche, è capace di mettere in risalto profili che, al quisque de populo, potrebbero apparire irrilevanti. Ricordiamo infatti che la funzione della denuncia-querela è quella di comunicare agli organi competenti una notitia criminis, in tal modo sollecitando il pubblico ministero e la polizia giudiziaria ad assumere informazioni dirette ad accertarne la fondatezza e a perseguirne il responsabile.
In tale prospettiva rappresenta un sicuro affidamento incaricare al professionista la redazione dell’atto di denuncia-querela poiché solo un esperto conoscitore delle fattispecie criminose potrà attribuire il giusto valore agli elementi di maggiore significato e risalto giuridico, attraverso una chiara e mirata esposizione dei fatti. Tale attività di valorizzazione dei più opportuni profili fattuali troverà la sua massima espressione giuridica nell’ipotesi in cui sia l’avvocato a predisporre la denuncia-querela in forma scritta: infatti, attraverso un elaborato sintetico ma particolarmente incisivo e dettagliato, il difensore stesso traccerà le linee essenziali da seguire per appurare la sussistenza di una ipotesi di reato, in tal modo indirizzando gli inquirenti in un percorso già segnato[9].
Ruolo importante è rivestito anche dall’assistenza tecnica nel caso in cui la persona offesa dal reato decida di sporgere denuncia-querela in forma orale: in tale ipotesi il difensore, oltre a svolgere una preventiva attività di “preparazione” del proprio assistito, volta a far emergere, nell’esposizione dei fatti, quelle circostante penalmente interessanti e rilevanti, potrà anche orientare il verbalizzante nella stesura dell’esposto, invitandolo a mettere nero su bianco tutte le circostanze enucleate del querelante, a volte ritenute dal redattore secondarie.