La violenza. Le responsabilità di Caino e le connivenze di Abele
Quando si parla di violenza rischiamo di cadere in una trappola: la banalizzazione.
Perché in fondo ogni giorno parliamo di violenza. Ogni giorno ci fanno parlare di violenza Tv, radio, giornali. Basta vedere il posto che la violenza occupa nei talk show, o anche nelle nostre conversazioni. Se però spogliamo il fenomeno violenza dell’effetto spettacolarizzazione, o di quel tanto di curiosità un po’ morbosa, ammettiamolo, che suscita in tutti noi, e andiamo oltre questo aspetto, ci accorgiamo allora che il tema diventa difficile, spinoso, impervio, complesso, tutt’altro che banale.
Parafrasando una seppur autorevole pensatrice e intellettuale come Anna Harendt direi che il male non è mai banale. Non crediamo alla banalità del male. Ciascuno sa cos’è il dolore, anche un bambino di tre anni sa cosa è il dolore. E se qualcuno fa del male a qualcun altro è consapevole del male che procura. Se poi non fosse consapevole, allora c’è un altro problema che mi pare tutto fuorché banale.
Insomma, se vogliamo affrontare il tema della violenza sul serio, dobbiamo farlo con molta attenzione. Questo preambolo non è a caso ma è funzionale al libro “La violenza. Le responsabilità di Caino e le connivenze di Abele” di Amato Luciano Fargnoli, Sonia Moretti, Gilda Scardaccione e con vari contributi (Edizioni Alpes, Roma, 2010 – 220 pagine, 19 euro).
Questo libro ha due meriti. Il primo: che libri così in giro in Italia non ce ne sono molti. Ci sono sì testi che parlano di violenza, ma in modo settoriale, come la violenza sulle donne, la violenza del branco, il genocidio, la violenza sui bambini. Non c’è invece un libro che affronti la violenza in senso “ontologico” e ne esamini la complessità – e uso il termine complessità nel senso di modello che mette in relazione ciò che, muovendo da origini diverse e molteplici, forma un tessuto unico e inscindibile-. Questo stesso motivo fa di questo testo un’opera originale, profonda e rigorosa che non si lascia sfiorare neanche lontanamente dalla trappola della banalizzazione. E questo è il suo secondo merito. Inaugurando una nuova collana, non si poteva scegliere un modo migliore per iniziare.
Di 220 pagine, il volume è diviso in tre sezioni. La prima: Genesi e forme di violenza; la seconda: modalità espressive della violenza; la terza: Asterischi: conversazioni sulla violenza.
In pratica è un giro a 360 gradi attorno all’universo violenza. Se ne studiano gli aspetti antropologici, i fattori psicodinamici, uno dei sentimenti che più l’alimentano, l’odio, un attore indispensabile e fatale della violenza, la vittima.
Dal generale poi si scende più al particolare, si passano in rassegna i modi in cui si esprime la violenza: le psicopatologie, l’aggressività giovanile, gli internet crime, i reati sessuali, il mobbing, fino alle nuove forme di patologie sociali come la sindrome da crimine.
La parte intitolata “Asterischi” è dedicata a conversazioni guidate da Sonia Moretti che in modo agile fa addentrare esperti in temi specifici come l’esame della famosa scena del crimine, un’espressione ormai divenuta di uso comune grazie purtroppo gli ultimi omicidi e l’intervento del Ris. La violenza rituale dei gruppi religiosi o dei culti satanici. La violenza omicida dei gruppi rivoluzionari.
Poi c’è una postfazione di Amato Luciano Fargnoli che, come tradizione ci insegna, scioglie il rebus del titolo e al lettore consegna un epilogo su cui riflettere. Un humus lo chiamerei, perché genera pensiero. Si intitola “Ma Abele era innocente?”
C’è una domanda che Fargnoli fa all’inizio del libro e che rinnova poi nella postfazione, in una sorta di ringcomposition che dà anche un senso di compiutezza all’opera: la violenza è una forma dell’agire in particolari situazioni e contesti o è un elemento strutturale della personalità? E’ una componente dell’uomo?
Se Fargnoli risponde che se non ci fosse la necessità di confrontarsi con questo aspetto naturale dell’uomo non ci sarebbe bisogno di costruire regole e leggi, Moretti da un altro punto di vista sostiene che la violenza è una modalità come tante di entrare in relazione con l’altro. Non solo, citando lo psicanalista francese Jean Bergeret, Moretti scrive che esiste una violenza fondamentale ed è quella che risponde alla nozione di “sforzo impiegato per mantenersi in vita”.
E allora, se si toccano i temi delle relazioni e della sopravvivenza in una rete sociale, inevitabile nasce il collegamento con il tipo di società in cui viviamo, che è stata definita capace di generare una violenza modernista, cioè che contiene tratti di una modernità multipla, qualificata da un eccesso di individualizzazione. In pratica, oggi più che mai la violenza sarebbe una forza sociale che oggettiva l’identità, le dà forma e riempie il vuoto tra identità personale e collettiva.
La tesi di Bauman che considera la nostra epoca come quella dei legami liquidi deve essere integrata. La liquidità è solo un aspetto della civiltà contemporanea. L’altro aspetto del disagio contemporaneo della civiltà che dobbiamo registrare è quello della identificazione solida, ovvero quella identificazione che segnala la tendenza del soggetto alla chiusura, alla pietrificazione alla solidificazione narcisistica come risposta estrema alla liquefazione dei legami sociali. E aggiungo, al vuoto lasciato dalla religione nel senso più ampio del termine, e dal sacro.
A questo punto come scatta la violenza, lato oscuro di tutti noi? Come cortocircuito. La logica violenta dell’impotenza che risponde alla logica violenta della potenza come scrive il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard. Una manifestazione inevitabile, sintomo del collasso della parola, che si verifica con l’interazione tra più fattori, individuali, relazionali, sociali, culturali, ambientali.
Alla fine qual è l’eredità che ci lascia questo libro?
E’ scritta nella filigrana delle sue pagine e nella postfazione di Fargnoli che, con le sue riflessioni sul non-agire di Abele e sulla conseguente condotta criminale di Caino ci lascia con una considerazione, che affiderò alle parole di Edgar Morin, il teorico della complessità L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso della responsabilità.
E, aggiungo, saper guardare di più e meglio con un gesto che ci proietta fuori di noi ma strettamente legati all’altro, è uno dei primi passi della prevenzione.