La solitudine e l’isolamento in adolescenza
Essere soli. Stare soli. Sentirsi soli. La distinzione tra questi tre termini rimanda a condizioni esistenziali, comportamentali e soggettive della solitudine (Corsano, Musetti, 2012), facendoci già intuire la complessità di tale costrutto e sottolineandone la multidimensionalità. L’approccio di riferimento del presente lavoro è multidimensionale, ovvero parte dal presupposto che la solitudine in adolescenza può assumere molteplici forme (Goossens et al., 2009), da qui i diversi tipi di solitudine. Nel distinguere le varie dimensioni della solitudine, introduciamo anche il costrutto dell’isolamento. I termini solitudine e isolamento, i quali spesso vengono utilizzati in maniera interscambiabile, in realtà hanno significati diversi (Borgna, 2011). È pur vero tuttavia che spesso l’uno può sconfinare nell’altro. Già nel provare a distinguere i vari tipi di solitudine in termini di positiva o negativa, funzionale o disfunzionale, ci rendiamo conto dell’importanza di approfondire le ricerche, indagando soprattutto le motivazioni sottostanti a solitudine ed isolamento.
In accordo con il costrutto multidimensionale ed evolutivo, la letteratura ha distinto tra le diverse componenti dell’esperienza di solitudine (Weiss, 1973). L’essere solo (solitude) può essere correlato a due diverse dimensioni: la solitudine intesa come condizione oggettiva (aloneness) e quella intesa come condizione soggettiva (loneliness). La solitudine oggettiva è lo stare da soli caratterizzato da una mancanza di relazioni interpersonali, riconducibile a stati di isolamento sociale oggettivo che non è necessariamente indesiderato. Non sempre la solitudine oggettiva porta ad uno stato di tristezza e angoscia, può essere infatti una motivazione interna verso lo stare da solo (Majorano et al., 2015). In altri casi invece, la solitudine oggettiva è un’esperienza indesiderata ed è percepita come un rifiuto sociale e può essere associata ad alti livelli di solitudine soggettiva (Majorano, et al., 2015). Può trattarsi quindi di una situazione ricercata, subita o imposta (Corsano et al., 2011).
La solitudine soggettiva, invece, si riferisce al sentimento personale di sentirsi soli, relativa “ai sentimenti provati e agli atteggiamenti nei suoi confronti” (Corsano et al., 2011), un’esperienza più o meno dolorosa che può manifestarsi sia in assenza che in presenza di altri.
Le esperienze solitarie in adolescenza sono frequenti e particolarmente importanti per lo sviluppo, tuttavia è necessario premettere che ogni individuo segue percorsi diversi e difatti la letteratura ha riportato traiettorie di solitudine diverse tra adolescenti (van Dulmen, Goossens 2013). In merito al significato che tale costrutto assume, possiamo dire che è anch’esso particolarmente complesso, esistono piuttosto differenti esperienze di solitudine. Tali esperienze, di tipo soggettivo o oggettivo assumono un carattere positivo o negativo nei termini di capacità, bisogno, timore, avversione, solitudine ricercata o subita (Corsano et al., 2016). Van Dulmen e Goossens (2013), hanno rilevato che le traiettorie diverse di solitudine, riflettono individui che si differenziano tra loro rispetto ad intensità, stabilità del sentimento provato e tratti individuali di personalità. Da tale studio (Van Dulmen e Goossens, 2013) emerge che una percentuale variabile di adolescenti evidenzia una quota bassa e stabile di sentimento di solitudine; altri quote moderate di solitudine, in aumento o in calo, a seconda dei gruppi; mentre una percentuale più bassa di individui mostra livelli elevati e cronici di tale sentimento. Sentimenti di solitudine elevati e stabili nel tempo, appaiono correlati a forte malessere fisico e psicosociale (Corsano et al., 2016). Sono tali individui ad essere più inclini a sintomi di disagio psicologico, come per esempio problemi di salute, disturbi del sonno, depressione (Majorano et al., 2015). Secondo Majorano et al., (2015), diviene opportuno chiarire i fattori che possono influenzare le diverse traiettorie, utilizzando un approccio che considera la solitudine come un costrutto multidimensionale.
La solitudine come risorsa
Molte ricerche che hanno indagato la solitudine in adolescenza si sono concentrate sulla solitudine definita come ritiro sociale e isolamento, enfatizzando i rischi che tali condizioni pongono in termini di capacità di adattamento dell’adolescente e associandolo a sentimenti di solitudine di tipo negativo (Larson, 1990). È importante però soffermarsi anche su quelle esperienze di solitudine utili all’adolescente durante il passaggio verso l’età adulta, utilizzate come una sorta di “ritiro strategico” (Larson, 1997).
La solitudine in adolescenza può essere temuta, ricercata, subita o comunque imposta. Si tende spesso, e gli adolescenti non ne sono assolutamente esclusi, a dare una valenza negativa alla solitudine, ad averne timore e quindi cercare di evitarla. Soprattutto nella fase di esordio dell’adolescenza, sempre più importanza viene data alle relazioni con i pari, alcuni ragazzi possono temere di non essere accettati, l’isolamento. La solitudine può quindi far provare timore e la conseguente tendenza a sfuggire ad essa, ma può anche rivelarsi una risorsa, un momento di introspezione per poter riflettere e stabilire un contatto con se stessi. A causa di differenti fattori evolutivi gli adolescenti vivono esperienze solitarie, o comunque tendono a ricercare o subire momenti di solitudine e a percepire elevati livelli di isolamento (Corsano et al., 2011). Diviene quindi necessario non trascurare la possibilità, che diverse esperienze di solitudine possono presentarsi durante il normale processo di crescita (Corsano, Majorano, Champretavy, 2006).
La letteratura dimostra che, nonostante è indubbia l’ esistenza di vissuti di solitudine negativi (sui quali ci soffermeremo successivamente), le esperienze solitarie possono però avere un ruolo rilevante anche nell’adattamento psicologico, l’adolescente può infatti sentire il bisogno di stare solo, di ritagliarsi un tempo per sé e poter riflettere su se stesso (Buchholz, 1997).
Prima di analizzare i fattori che incidono nel dare una chiave di lettura positiva o negativa del concetto di solitudine, giova fare una premessa in merito all’importanza delle relazioni interpersonali durante il periodo adolescenziale e nell’influenza che esercitano nella costruzione di un’ identità autonoma.
Da molto tempo la letteratura pone attenzione all’importanza delle relazioni interpersonali durante l’adolescenza, in particolare diversi studi segnalano che soddisfacenti relazioni con amici e genitori sono collegate a maggiori risultati positivi in questa fase dello sviluppo (Corsano, Majorano, Champretavy, 2006). Nelle relazioni con i pari l’amicizia contribuisce all’adattamento psicosociale dell’adolescente e costituisce un importante fattore protettivo contro i comportamenti devianti, la depressione e la sensazione di alienazione (Corsano, Majorano, Champretavy, 2006). Allo stesso modo anche la famiglia svolge un ruolo importante nell’adattamento dello sviluppo psicosociale dell’adolescente e nell’evitamento di comportamenti a rischio e devianti (Corsano, Majorano, Champretavy, 2006, Cattelino e Bonino, 1999). Inoltre la qualità delle relazioni famigliari svolge un importante ruolo nel determinare la fiducia e la competenza con la quale il giovane affronterà il delicato periodo di transizione verso l’età adulta (Palmonari, 2011).
Fatta questa premessa sull’importanza delle relazioni interpersonali in tale fase dello sviluppo, è tuttavia indubbio che la costruzione dell’autonomia è al centro dei compiti di sviluppo della fase adolescenziale (Steinberg, 2005) e fondamentale per transitare verso l’età adulta. Molti ricercatori dell’età evolutiva sostengono che l’acquisizione di un sufficiente grado di autonomia sia l’esito del secondo processo di separazione/individuazione (Corsano, Musetti, 2012), necessario per la costruzione di un’identità autonoma. Gli adolescenti sono coinvolti in un processo di ridefinizione delle relazioni con i genitori e con il gruppo dei pari, ed in questa fase cercano di allontanarsi dalla “dipendenza” dalla famiglia (Majorano et al., 2015). La capacità e il bisogno di stare da soli possono quindi avere un ruolo significativo per gli adolescenti coinvolti durante il processo di separazione/individuazione (Blos 1967) e nella costruzione di un’identità autonoma (Musetti et al. 2012). Come affermato precedentemente, l’adolescente può sentire il bisogno di momenti in cui poter stare solo per elaborare, riflettere su se stesso, crearsi gradualmente un proprio pensiero e compiere delle scelte autonome. Un sentimento di solitudine che gradualmente non è solamente nei confronti della conquista di un’autonomia rispetto a genitori e gruppo dei pari, ma riguarda anche le nuove possibilità che gli si aprono sul piano cognitivo (Corsano, 2003). L’individuo si trova quindi di fronte ad una autonomia non solo esterna (Luttle, 1987), ma anche interna, la quale si esplica nelle possibilità e responsabilità di prendere decisioni riguardo alla propria vita, senza sensi di colpa e senza giudicare le proprie azioni sulla base dei criteri attribuiti ai genitori, e facendosi quindi carico delle conseguenze delle proprie azioni (Palmonari, 2011).
L’individuo impegnato nella formazione dell’identità deve scegliere una prospettiva di sviluppo, ma rinunciando ad altre che sente comunque gratificanti (Palmonari, 2011). L’acquisizione di un’identità autonoma è un lavoro lungo, graduale, complicato e faticoso. E’ fatto di esplorazione, sperimentazione, impegno, scelte, rinunce, confronti, confusione, a volte anche momenti dolorosi; è per questo che durante l’adolescenza i genitori devono continuare a rimanere un necessario punto di riferimento sia affettivo che normativo (Corsano, 2003). L’adolescente ha bisogno di sentire di poter contare sulla presenza dei genitori, ed ha bisogno di poter contare sulla presenza degli amici, che inizialmente attutiscono il sentimento di solitudine relativo alla separazione, è anche per questo che l’isolamento rispetto ai compagni è temuto in questa fase (Corsano, 2003). Le relazioni con i famigliari e con i pari sono fondamentali per la costruzione di un’identità autonoma, ma, come afferma Corsano (p. 75, 2003) questo processo di crescita richiede anche “vari momenti di riflessione individuale, in compagnia di se stessi, che non possono che essere momenti di solitudine, talvolta ricercata volontariamente, talvolta temuta e vissuta con angoscia.”
Per cercare di capire il significato positivo o negativo dell’adolescente nei confronti della solitudine bisogna quindi tener conto di fattori individuali, situazionali (Lavallee e Parker, 2009), ma anche dell’atteggiamento individuale di avversione o affinità verso tale sentimento (Goossens e Beyers, 2002; Corsano e Musetti, 2012). Sul punto Goossens e Beyers, (2002) sostengono che la variabile affinità verso lo stare soli è in grado di alleviare il sentimento di solitudine quando si è soli, mentre l’avversione aumenta tale sentimento. Chiaramente perché la solitudine rappresenti una risorsa per uno sviluppo adattativo è necessario che l’individuo sia in grado di distinguere le diverse esperienze di solitudine, quando positive, quando negative, cogliendone quindi la multidimensionalità (Corsano e Musetti, 2012).
Il ruolo dell’autodeterminazione
Abbiamo sin qui trattato della solitudine in adolescenza, dal punto di vista funzionale o disfunzionale, partendo dal principio che ogni individuo segue traiettorie diverse. Sul punto, la letteratura, per integrare e provare a fare chiarezza su tale argomento introduce l’importanza del ruolo assunto dalla motivazione. Ovvero, distinguere tra una solitudine subita passivamente o imposta e una solitudine ricercata e scelta (Ricci Bitti, Cortesi, 2000; Gossens, Beyers, 2002), quindi voluta ed intenzionale. In realtà come sostengono Corsano e Musetti (2012), differenziare tra azione intenzionale e non intenzionale, non chiarisce il valore motivazionale di tale azione; i due autori ritengono utile prendere in considerazione le relazioni tra autodeterminazione e solitudine. Corsano et al. (2011) hanno rilevato che il concetto di autodeterminazione (Deci e Ryan, 1985; 2000), possa fornire un importante contributo in merito al ruolo ed al significato delle esperienze solitarie dei giovani. La motivazione può essere definita come lo stato interiore che rende conto del perché un soggetto intraprenda (o non intraprenda) un’azione finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo o obiettivo (Canestrari, Godino, 2000). Il tipo di motivazione del soggetto può essere: Amotivazione, Motivazione Intrinseca e Motivazione Estrinseca. Nel primo c’è un’assenza di motivazione, i comportamenti vengono messi in atto senza sapere perché. La motivazione intrinseca o autonoma, invece, spinge l’individuo a svolgere un’attività in maniera spontanea, la quale è soddisfacente di per sé, senza aspettarsi una ricompensa esterna, l’interesse e l’attenzione sono rivolti all’attività. Mentre nella motivazione estrinseca o controllata, il comportamento è messo in atto in vista di ricompense o riconoscimenti esterni o per evitare punizioni o conseguenze sgradevoli (Deci e Ryan, 1985; Deci e Ryan, 2000). Nella motivazione intrinseca, viene raggiunto il massimo grado di autonomia (Deci e Ryan, 2000) e possiamo quindi parlare di attività autodeterminata.
Come detto precedentemente, volere o scegliere, da parte di un individuo, di mettere in atto un determinato comportamento, ci danno informazioni circa l’intenzionalità di quella condotta, ma non chiariscono la valenza dell’intenzione (Corsano, Musetti, 2012). Ovvero non necessariamente è chiaro che viene messa in atto perché gli piace, perché per il soggetto è importante o perché avverte una pressione esterna (Beiswenger, 2008; Corsano, Musetti, 2012). Capire cosa si cela dietro un comportamento intenzionale può far comprendere meglio quando l’ azione di un individuo è autodeterminata, e conseguentemente se il soggetto sperimenta uno stato di benessere o malessere.
A tale proposito, dai risultati di uno studio di Corsano et al. (2011) in cui veniva indagata la relazione tra autodeterminazione al comportamento solitario, sentimento di solitudine e attitudine nei confronti dell’esperienza di solitudine, emerge che tanto più l’adolescente si sente autodeterminato nel comportamento solitario, tanto meno si sente solo e tanto più valuta positivamente il tempo trascorso in solitudine. Tali dati sono in linea con la letteratura e vanno ad avvalorare l’idea che quando gli adolescenti scelgono intenzionalmente di trascorrere del tempo in solitudine, e quindi c’è un’autonomia nel comportamento solitario, ciò è associato a benessere; quando tale comportamento è subito o imposto dall’esterno, e quindi non è autodeterminato, è associato ad un maggior disagio nella relazione con i pari.
La solitudine che fa male
La solitudine viene vissuta in maniera diversa dagli adolescenti, proprio per questo la letteratura ha affrontato tale tematica secondo prospettive diverse, chi privilegiando la solitudine come rischio, chi come risorsa di sviluppo (Corsano, Musetti, 2012).
Da quanto detto sin d’ora emerge che la solitudine in adolescenza, intesa come una dimensione psicologica individuale, può assumere un significato adattivo quando risponde ad un bisogno di sviluppo e può promuovere il benessere psicologico quando gli adolescenti scelgono di essere soli (Corsano, Majorano, Champretavy, 2006). Ma può essere anche un rischio se non scelta, ma subita o se la decliniamo dal punto di vista della solitudine sociale, dell’isolamento, causata per esempio da un rifiuto sociale, o nel caso di ragazzi che hanno problemi di devianza.
In letteratura si è sviluppato un filone di ricerche il quale ha indagato la solitudine in quegli adolescenti che la vivono come un malessere e come un tratto costante della loro vita (Corsano et al., 2014). Il sentimento di solitudine è stato associato a problemi sia internalizzanti che esternalizzanti. Come riportato da Corsano e Musetti (2012), il filone di ricerca che analizza la solitudine negli adolescenti come una qualche forma di disagio, o comunque di rischio, li descrive come passivi, tristi e introversi (Van Burkirk , Duke, 1991), individui che sperimentano maggiore stress (Cacioppo et al., 2000) e ansia sociale (Goossens, Marcoern, 1999), sono inoltre poco integrati socialmente (Goswick, Jones, 1982; Downey, 1984) e poco orientati al futuro (Seginer, Lilach, 2004). Ci sono inoltre ricerche che hanno analizzato la timidezza, intesa come aspetto specifico della personalità, in relazione con la solitudine. Ne è emerso che la timidezza è stata identificata come un predittore di sentimenti di solitudine (Boivin et al., 1994). Nella tristezza è presente un’esperienza di isolamento sofferto come peso, con “vissuti” di disagio verso se stessi e verso gli altri; la solitudine da disagio interpersonale tende a diventare intrapersonale (Caprara et al., 2005). Una solitudine sofferta in cui, come sostengono Caprara et al. (2005), è presente la tendenza ad attribuire i fallimenti a se stessi ed i successi a cause esterne, bassa autostima e minori abilità sociali. Senza dimenticare che spesso gli individui timidi divengono persino oggetto di vittimizzazione da parte dei pari, innescando così un ulteriore circolo vizioso di solitudine (Boivin et al., 1995).
Declinando la solitudine in termini di isolamento, in ambito psicogiuridico, l’ isolamento è spesso uno degli effetti che vengono notati nella vittima di una qualche forma di aggressione o violenza: da quella sessuale, fisica, assistita, finanche a quella psicologica. Purtroppo questo tipo di solitudine non è ricercata, ma subita o imposta oppure una conseguenza dell’abuso. La vittima di violenza subisce sia un vissuto di solitudine soggettivo, accompagnato da vergogna e sensi di colpa, sia una solitudine oggettiva, un vero e proprio isolamento. La perdita di punti di riferimento affettivi e sociali, essere oggettivamente soli e non sapere con chi confidarsi è ciò che vive la maggior parte delle vittime di violenza. Spesso l’isolamento può essere un effetto della violenza, e altrettanto spesso l’isolamento sociale può essere generato dall’abusante con lo scopo di rendere la vittima più vulnerabile. Anzi, in casi come per esempio il “bullismo indiretto”, l’isolamento e l’esclusione sono proprio l’obiettivo dell’autore dell’atto.
Conclusioni
La studiosa Ester Schaler Buchholz (1999) nell’indagare il significato evolutivo dell’ esperienza di solitudine, ha affermato che la solitudine permette di crescere in tutte le fasi dello sviluppo. In adolescenza, in cui viene abbandonato il certo per l’incerto, o meglio avviene il passaggio da una realtà che da “certa” è diventata “possibile” (Piaget, Inhelder, 1995), può permettere di costruire un’identità autonoma (Buchholz, 1999). Per alcuni adolescenti la solitudine costituisce una risorsa, è adattiva e funzionale, se ricercata e scelta intenzionalmente grazie ad una motivazione interna; per altri costituisce un rischio. Abbiamo infatti visto che per alcuni ragazzi (che la prospettiva del rischio indaga come solitari), l’esperienza di solitudine può orientare verso percorsi psicopatologici di disadattamento (Corsano e Musetti, 2012). Preme quindi tenere sempre presenti le motivazioni individuali al comportamento di solitudine e a quello d’isolamento, in termini di intensità, stabilità del sentimento provato e tratti individuali di personalità.
Per quegli adolescenti che mostrano sentimenti di solitudine elevati e stabili nel tempo o più in generale in termini di prevenzione del disagio in questa fase evolutiva, secondo la letteratura risulta utile lavorare tramite le varie dimensioni della solitudine, su quelle connesse all’acquisizione dell’autonomia, attraverso progetti di sostegno (Corsano, 2011).
Sul fronte della ricerca sarebbe interessante approfondire ulteriormente il rapporto tra autodeterminazione e solitudine, dato che le ricerche su tale argomento non sono molte. Così come meriterebbe approfondire le variabili che intervengono, nella solitudine e nell’isolamento, nell’influenzare le diverse traiettorie; traiettorie che differiscono da un basso e stabile, moderato, alto e cronico, sentimento di solitudine.
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