La ripresa finanziaria post-culto
Traduzione[1] di Virginia Mazzoni
Se una persona è sufficientemente forte per sopravvivere ad un culto abusante, tanto da uscirne, incorrerà numerosi ostacoli da superare. Ostacoli che sono parte integrante della vita post-culto. Essi però insegnano inestimabili lezioni su noi stessi: ogni volta che decidiamo di demolire una paura o una menzogna che deriva da anni di indottrinamento ad opera di un culto, ci riprendiamo la nostra forza e la nostra vita. Possiamo dire a noi stessi “quest’ambito della mia vita adesso è di nuovo mio”.
L’attacco finanziario da parte dei culti
La maggioranza dei fuoriusciti dai culti abusanti soffrono a causa di quella che si può ben definire “una rovina finanziaria”, messa in atto dai leader dei culti, che si appropriano dei loro beni. Nel mio gruppo, i membri vivevano in abitazioni comuni, condividendo le spese primarie. Ogni mese firmavamo al gruppo un assegno per l’affitto, le utenze ed il cibo. Inoltre, ci era stato detto che, in qualità di nuovi membri, avevamo bisogno di aiuto per “trasformarci” spiritualmente. Questo “aiuto” poteva assumere varie forme, ovviamente tutte a pagamento. Assegni versati al culto che comportavano: una quota fissa al mese per le registrazioni degli insegnamenti del leader, un’altra quota fissa settimanale per le lezioni individuali ed altre quote settimanali per le prove individuali. Pagavamo anche per dei corsi tenuti dagli studenti più “anziani” e per le derivanti esercitazioni.
Adesso mi suona strano, ma non mi sono resa conto di quanto pesantemente le mie finanze venivano devastate finché non ho abbandonato il gruppo. Quando, bisognosa di assistenza medica, ho realizzato di non disporre di alcun risparmio per pagarla. È stato grazie alla partecipazione a delle conferenze organizzate dall’International Cultic Studies Association (ICSA) e dal Rocky Mountain Resource Center del Colorado, e alla possibilità, in quelle occasioni, di parlare con molti altri fuoriusciti che ho capito che questa era un’esperienza comune.
Nessuno entra a far parte di una setta consapevolmente
Sono andata a vivere in un’abitazione comune e nel maggio 2002 sono diventata ufficialmente membro del gruppo, da allora, per anni, ho portato avanti gli interessi del gruppo, dimenticando le mie necessità, in definitiva trascurando me stessa. All’inizio facevo molte domande, ma queste venivano eluse attraverso argomentazioni dottrinali. Solo adesso capisco che non ho mai effettivamente ricevuto le spiegazioni che chiedevo. Anni non-vissuti veramente, senza minimamente rendermi conto della vera natura del culto a cui avevo totalmente affidato me stessa e le mie risorse. I leader seducono, ingannano per mascherare le loro reali finalità: altrimenti, nessuno sano di mente deciderebbe di entrare a far parte di un culto abusante se sapesse in cosa consiste.
Le persone ricercano e pensano di raggiungere, attraverso l’adesione al culto, una migliore salute, una crescita spirituale, un’illuminazione. Ciò che effettivamente trovano sono solo molte privazioni e divieti ben celati dietro una eloquente dottrina dissimulata come “bene superiore”.
Per esempio, il culto a cui appartenevo si promuoveva inviando relatori in tutto il paese. Chi, come me, non era un conferenziere, doveva “servire” come assistente. Ogni domenica, dopo ore trascorse in estenuanti esercizi che sarebbero dovuti servire a sviluppare il mio carattere e la mia resistenza, era mio compito condurre i relatori ovunque il culto stabiliva, chiaramente guidando la mia macchina personale – con qualunque tipo di condizione metereologica – e naturalmente finanziando personalmente i suddetti viaggi.
Un altro dei miei compiti era quello di provvedere al cibo del fine-settimana sia per la mia abitazione di quattro persone che per le cosiddette “feste” programmate a cadenza settimanale composte da otto persone, addebitando ovviamente anche queste spese sulla mia carta di credito. In realtà nel caso specifico delle “feste” era previsto un rimborso, ma spesso ho dovuto aspettare settimane, a volte mesi, per recuperare i soldi spesi.
Come molti fuoriusciti, una volta uscita dal gruppo ho avuto bisogno di svariate cure mediche, ed è qui che arriva uno dei più grossi ostacoli di cui parlavo sopra. Io non possedevo alcuna assicurazione medica. Nel giro di tre mesi dall’entrata nel gruppo, ho “rinunciato” all’assicurazione per la salute COBRA che avevo grazie al mio ultimo “vero” lavoro. I leader mi convinsero infatti che convertirmi al loro salutare stile di vita sarebbe stata la mia miglior garanzia contro ogni futura malattia. Che ironia! Adesso proprio a causa della mia adesione alla creduta vita “salutare” mi ritrovavo ad affrontare non pochi problemi di salute, e senza supporti economici.
Assistenza famigliare e invalidità
Fortunatamente, nonostante il culto mi avesse allontanata dalla mia famiglia, una volta fuoriuscita dal culto i miei famigliari si sono mobilitati, mi hanno accolto, si sono stretti a me. Mia madre mi prese a vivere con lei. Mio padre spedì dei soldi ogni mese per circa un anno. Entrambe le mie nonne mandavano dei soldi, quando ne avevano possibilità. Mio fratello e sua moglie pagarono la caparra iniziale per la mia degenza al centro di ricovero Wellspring. Mia madre ed io sfruttammo degli investimenti di famiglia per riuscire a pagare le mie spese mediche. Ma tutti questi sforzi non erano sufficienti a coprire il supporto finanziario di cui bisognavo.
Fortunatamente sul mio cammino ho incontrato persone disposte ad ascoltare, a capire. Nell’anno e mezzo trascorso prima che iniziasse il sussidio per la mia invalidità, l’assistenza statale ha attutito il devastante colpo delle spese mediche in cui sono incorsa nella mia lotta per la vita, per riprendermi il mio corpo, la mia mente, la mia anima.
Scoprimmo che c’erano molte risorse pubbliche disponibili, ma dovemmo continuare a fare diverse richieste per trovare quale potessero essere funzionali alla mia particolare situazione.
Diversamente a quanto creduto quando ero nel culto, ho sperimentato la generosità e l’interesse personale nei miei confronti in diverse persone. La mia psichiatra mi riceveva nel suo studio privato di assistenza, fornendomi campioni gratuiti dei medicinali di cui avevo bisogno. Il suo studio mi sosteneva anche nel rivolgermi direttamente alle aziende farmaceutiche per medicine gratuite. Eliminare le spese per le costose prescrizioni ha fatto un’enorme differenza, fino a che non ho ottenuto il Medicare[2]. La mia psichiatra mi incontrava anche ai meeting della sua chiesa per offrirmi assistenza gratuita. Non provava a convertirmi, né mi faceva pressioni affinché frequentassi la sua chiesa. Mi sono sentita grata per aver ricevuto la sua assistenza gratuitamente.
In molti altri casi abbiamo chiesto ed ottenuto clemenza per i debiti verso le compagnie mediche, inclusi gli ospedali, molti dei quali, fortunatamente, avevano programmi di cura per indigenti e dal momento che non sono stata in grado di lavorare per mesi prima del mio ricovero, richiesi e ottenni l’accesso al programma medico per indigenti. Altre compagnie mediche hanno ribassato il mio debito una volta che avevo scritto loro e spiegato la mia situazione.
La spesa più grande per me, una volta uscita dal culto, fu il costo medico del mio ricovero. Era necessario fare affidamento su fondi della comunità. Provavo un po’ di vergogna nel richiedere soldi per la mia invalidità, ma col tempo sono arrivata a realizzare che in realtà avevo contribuito per anni a quei fondi come cittadina lavoratrice. Mi meritavo l’assistenza quando sono diventata invalida e non in grado di lavorare.
I requisiti per l’invalidità, oltre a ricevere la pensione mensile, permettono l’accesso ad ulteriori risorse, per esempio l’attivazione della assicurazione sanitaria, che sostiene nel pagare le spese mediche; e l’accesso a ticket che consentono il pagamento di visite a carico del paziente, nei casi in cui i medici non accettano Medicare. La burocrazia richiesta fu difficile per me, in quanto soffrivo di disordine da stress post-traumatico (PTSD), un disturbo comune fra i fuoriusciti. Avevo bisogno di mia madre per completare i moduli, anche quelli più semplici. Avevo i requisiti anche per un aiuto da parte della Divisione per la Riabilitazione Professionale: anche se in questo caso c’era da superare una maggiore burocrazia e un periodo più lungo di attesa, una volta attenuto questo riconoscimento ho potuto accedere agli strumenti ed al sostegno necessario per continuare il mio viaggio verso la “ricostruzione” della mia vita e finalmente iniziare di “nuovo” a lavorare, con la consapevolezza di proiettarmi verso la realizzazione del mio futuro e non più per “ingrassare” la borsa di un culto.
Ho capito che non bisogna vergognarsi ad utilizzare le risorse della comunità. Quando ho iniziato a stare da sola, sono andata al Banco Alimentare fino a che non ho avuto sufficienti soldi per comprarmi il cibo. Ho scoperto anche un “armadio pubblico” dove ho trovato vestiti da lavoro. Tutte queste risorse mi hanno aiutata nel mio faticoso percorso per sentirmi di nuovo normale.
Lavorare provvisoriamente e gestire il proprio tempo
Nonostante trovassi la maggior parte degli ambienti lavorativi difficili da sopportare, adesso penso che il solo fatto di essere uscita fuori di casa con l’intento di provarci, sforzandomi giorno dopo giorno, mi abbia aiutata a rafforzare il mio corpo, la mia mente, la mia anima. Dover affrontare le persone non era facile, anzi. Uno dei primi lavori che mi ha permesso di provare piacere è stato alla Petco, qui mi prendevo cura degli animali la mattina presto, quando c’era tranquillità prima che arrivassero i molti clienti.
Non durai molto alla Petco, ma imparai molto sulla cura degli animali. Ho tutt’ora una tartaruga. Questo lavoro mi ha fatto comprendere che lavorare in ambienti e in orari meno frenetici mi aiutava a reinserirmi gradualmente nella società. Per esempio, ero stata assunta da un’agenzia provvisoria; l’incarico migliore che avevo ottenuto consisteva nel lavorare come receptionist dalle 17 alle 20. Fu più facile per me interagire con poche persone in un orario più tranquillo. Feci amicizia con le signore delle pulizie e coi tecnici di radiologia. Era un lavoro semplice, e ottimo per me in quel periodo. Registravo le persone, rifornivo il frigorifero di bibite, rispondevo ad un’eventuale telefonata, e archiviavo i risultati dei test medici. Potevo prendermi cura di me stessa e portare avanti il lavoro. Lentamente, questo impiego ha rafforzato la mia autostima e la concezione di me stessa. Mi sarei sentita minacciata in un ambiente di lavoro frenetico. Il recupero è diverso per tutti; per me, significava ambienti più tranquilli e meno affollati.