Il profiling vittimologico nella scomparsa di persona
Alta significatività rivestono i fattori influenti sull’immagazzinamento dell’informazione: tra questi, il citato decorso temporale dalla percezione dell’evento target e la «organizzazione gerarchica» (Gulotta, 2008, 132), con essa intendendosi la tendenza alla categorizzazione multilivello degli oggetti e/o degli eventi, in ragione della quale esisterebbe un livello ottimale di percezione dello stimolo, precisamente quello intermedio, dominante tanto nella fase di conservazione quanto in quella di rievocazione del dato mnestico[15]. L’incidenza del fattore gerarchico si manifesta sia in termini di quantità dell’informazione, decurtandola, sia in termini di accuratezza, provocandone distorsioni: nello specifico, l’informazione inizialmente codificata a livello sovraordinato tenderà ad essere riportata a livello intermedio, a seguito dell’integrazione del dato mnestico originario con conoscenze pregresse e/o informazioni post-evento.
Ciò renderebbe ragione delle non infrequenti incongruenze nelle dichiarazioni testimoniali rese in relazione alla scomparsa, provenienti addirittura dal medesimo dichiarante seppure in tempi diversi, principalmente allorquando il soggetto sia stato esposto a «ripetute narrazioni e rievocazioni dell’evento» (Gulotta, 2008, 133). In sostanza, se testare il ricordo migliora la performance mnestica rispetto alle informazioni oggetto del test, peggiora significativamente quella relativa alle informazioni che dal test risultano escluse, secondo il meccanismo del Retrieval–Induced Forgetting[16]: a sostegno di tale assunto milita l’ultimo ventennio di ricerca sul fenomeno, che ha evidenziato come il recupero di un’informazione dalla memoria episodica possa avere l’effetto paradossale di danneggiare il successivo ricordo di informazioni ad essa associate (Stramaccia, Braga, Fardo et al., 2015). L’incidenza dei processi di riproduzione mnestica si riverbera negativamente anche sull’accuratezza della testimonianza, stimolando l’«impianto di false memorie» (Gulotta, 2008, 134), nel senso di accrescere la probabilità che eventi non verificatisi, rispetto ai quali vengano poste domande esplicite, siano ricordati dal dichiarante come realmente occorsi.
Il ricordo può risultare, inoltre, contaminato da «informazioni successive alla codifica dell’evento» (Gulotta, 2008, 133), alle quali il testimone può avere avuto accesso, seppure in maniera non intenzionale: il riferimento è d’obbligo all’attuale sovraesposizione mediatica di episodi di scomparsa, che può alterare la genuinità del ricordo in testimoni particolarmente suggestionabili. L’incidenza di informazioni fuorvianti post-evento è stata acclarata soprattutto in merito ai dettagli, risultati maggiormente vulnerabili rispetto a quelli inerenti al nucleo dell’evento, sebbene non sia escluso il contenimento dell’effetto distorsivo mediante manipolazione del dato mnestico in sede di recupero dell’informazione precedentemente codificata. In particolare, l’efficacia degli «indizi per il recupero» (retrieval cues) nell’incrementare la quantità di memoria è direttamente proporzionale al grado di sovrapposizione tra il dato presentato all’atto del recupero e quello originariamente codificato. Viceversa, tali indizi non migliorano la testimonianza in termini di accuratezza, ragione per cui non dovrebbero essere forniti qualora la qualità della dichiarazione sia considerata prioritaria rispetto alla sua ampiezza. Sul predetto meccanismo manifestano la loro positiva incidenza anche fattori come il «contesto», inteso come l’ambiente fisico in cui la codifica ha avuto luogo, e i «processi ricostruttivi», ambedue incrementandone la quantità (Gulotta, 2008, 134).
Infine, rispetto all’evento-scomparsa, assumono rilievo «motivazione e fattori pragmatici» (Gulotta, 2008, 135) sottesi alla testimonianza: l’opportunità di esplicitare al dichiarante l’eventualità di non rispondere, ovvero di fornire risposte in forma dubitativa in merito ad informazioni cui il medesimo attribuisce un grado di certezza non soddisfacente, se riduce la quantità di informazione riportata, ne accresce tuttavia l’accuratezza, neutralizzando la tendenza soggettiva a rispondere secondo criteri di desiderabilità sociale piuttosto che di sincerità. In sostanza, poiché gli intervistati sono più propensi a dichiarare ciò che ritengono essere giusto, in termini di accettabilità sociale, piuttosto che ciò che realmente pensano (Turner & Martin, 1984), è auspicabile suggerire una risposta del tipo «non so» a fronte della richiesta dell’operatore di riferire tutto ciò di cui il dichiarante è a conoscenza, benché non ne sia certo.
La pressione psicologica proveniente dal contesto istituzionale, la motivazione a fornire informazioni utili e la tendenza a compiacere l’operatore concorrono a fare della testimonianza «un compromesso tra le richieste dell’interrogante e la rielaborazione dell’interrogato» (Gulotta, 2008, 137), anche relativamente al reperimento di informazioni in caso di scomparsa, incidendo sui successivi sviluppi investigativi: «l’investigazione del futuro è resa problematica dall’avere a che fare con congetture invece che con fatti conoscibili. Il futuro infatti non può essere sede di previsioni certe: caos e ordine convivono e anche una piccola variazione all’interno di un sistema può produrre enormi cambiamenti. Inoltre, quando entra in gioco l’uomo la situazione si complica ulteriormente. L’uomo infatti non solo è imprevedibile, contraddittorio e irrazionale, ma è anche dotato di intenzione e quindi non può essere compreso da un’ottica deterministica. D’altro canto, l’uomo risponde a norme – rispettandole o violandole – e quindi la sua condotta può essere almeno in parte prevista» (Gulotta, 2008, 230).
Recenti e autorevoli voci (Alison, West & Goodwill, 2004; Fishman, 2000, entrambi cit. in Gulotta, 2008, 231) si sono levate in favore del superamento della persistente distinzione tra ricerca scientifica e prassi investigativa, auspicando una prolifica collaborazione fra accademici e professionisti. Tale sinergia, che dovrebbe confluire in quella che è stata felicemente definita «psicologia pragmatica» (Gulotta, 2008, 231), sarebbe prodromica all’elaborazione di archivi da cui estrapolare informazioni utili sia a fini pragmatici che speculativi. Si ritiene, infatti, che la duplice attività di raccolta sistematica dei casi dettagliati e di analisi cumulativa del materiale predetto, al fine di ricavarne tendenze generali, possa rivelarsi vantaggiosa per entrambe le categorie professionali, oltre che funzionale al perseguimento di ambedue le finalità (Gulotta, 2008).
L’impostazione metodologica sviluppata dalla Scuola medico-legale modenese[17] in tema di investigazione giudiziaria suggerisce l’adozione di un approccio investigativo integrato – che, in questa sede, assumerebbe le vesti di una correlazione tra tipologia di scomparsa e tipologia di vittima di scomparsa – capace di coniugare l’investigazione scientifica con quella che De Fazio (1989, 102) ha efficacemente definito «investigazione vittimologica». Non vi è dubbio che l’esecuzione di un’attività come quella sopra delineata postuli la creazione di una vera e propria «mentalità investigativa» (Gulotta, 2008, XX), rispetto alla quale «occorre “attrezzarsi” culturalmente, organizzativament
e e metodologicamente» (De Fazio 1989, 103), pacifica la necessità di un’efficace integrazione delle competenze imposta dalla complessità del fenomeno in esame. Esaustive, a tal proposito, le riflessioni di Politi (1998, 14): «è chiaro […] che la risposta ai problemi multiformi è, da un lato, l’acquisizione di una mentalità e di una cultura giuridica e professionale più complete e più elastiche e, dall’altro, l’organizzazione e la programmazione del lavoro, in modo che l’operatore non debba ricorrere solo al proprio intuito investigativo, ma che – invece – sappia, da subito, quali prassi standardizzata egli debba seguire».
Un simile approccio impone l’elaborazione di apposite Linee Guida, da tradursi in uno specifico addestramento degli operatori, ferma restando la necessità di testare periodicamente la validità del modello prospettato e la sua corretta applicazione (Rel. XIV, 2015). Cionondimeno, la padronanza dello strumento investigativo non esime gli stessi dall’esplorare ipotesi alternative rispetto a quelle formulate sulla base di una visione precostituita, pena una ricostruzione fuorviante dello scenario di scomparsa: non a caso, «una delle fonti maggiori di errore (degli investigatori) consiste proprio nel ritenere che le azioni umane siano sempre dirette dalla logica cosciente. Se nell’indagine […] ci si trova di fronte ad una contraddizione, l’indagine si ferma finché non riesce a superarla; per l’inconscio, invece, non esiste la contraddizione» (Gulotta, 2008, 229). Altrimenti detto, l’incognita del c.d. fattore umano deve sempre informare di sé l’attività di ricerca e, prima ancora, l’elaborazione di qualsiasi protocollo investigativo che voglia assurgere a valido supporto delle tecniche operative di polizia: soltanto una metodologia d’indagine integrata potrebbe, infatti, ambire a ricomporre l’attuale scollamento tra letteratura scientifica e prassi investigativa in materia di scomparsa di persona.
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[1] In ossequio al principio di sovranità territoriale, che conferisce a ciascuno Stato il diritto di esercitare, in modo esclusivo, potere di governo sulla sua comunità territoriale, ossia sugli individui che si trovano nell’ambito del territorio nazionale (Conforti, 1997), l’Ufficio commissariale gestisce l’evento della scomparsa di persona fisica avvenuto all’interno dei propri confini, a prescindere dalla nazionalità del soggetto coinvolto (cittadino, straniero o apolide).
[2] Nella penultima Relazione commissariale, quella dell’allontanamento volontario costituisce la categoria motivazionale di scomparsa statisticamente più numerosa, attestandosi su 10.571 casi, di cui 8.024 relativi a minori e 2.305 a maggiorenni, 242 dei quali ultrasessantacinquenni (Rel. XIV, 2015, All. 6 e ss). Il trend trova sostanziale conferma anche nell’ultima Relazione in ordine di tempo, relativa al primo semestre 2016 e quindicesima dall’insediamento dell’Ufficio dedicato.
[3] Il “profilo” costituisce «il risultato (di) una generalizzazione di rappresentazioni a partire da ricerche e dati esperienzali raccolti su un piccolo numero di casi, esattamente come avviene per le diagnosi cliniche, in cui il comportamento ed i sintomi di un individuo vengono confrontati con altri individui già studiati» (Gulotta, 2008, 231).
[4] Particolare modalità d’indagine degli accadimenti umani rivolta al passato (Gulotta, 2008), si differenzia dall’indagine meramente storica poiché si avvale dell’impiego di fonti e di persone ancora esistenti e di tracce ancora sensibili (Yin, 1994).
[5] Espressione coniata da Canter (1997) agli inizi degli anni Novanta, per definire una nuova disciplina in grado di sistematizzare i contributi della psicologia applicati all’investigazione forense.
[6] Secondo Annon (1995), qualunque documento concernente il decesso (rapporto di polizia, dichiarazioni testimoniali, referto autoptico e tossicologico, ecc.) o inerente alla vittima nel periodo ad esso antecedente (referti medici, note scolastiche, ecc.) – c.d. fonti documentali o indirette – nonché le interviste alle c.d. fonti dirette, ossia alle persone informate del decesso e/o degli antefatti ad esso relativi (testimoni oculari, membri della famiglia, compagni di lavoro, ecc.).
[7] La metodologia impiegata per la validazione del MAPI è stata sviluppata dall’Istituto di Medicina Legale della Città di La Habana mediante tre investigazioni compiute, nel periodo 1990-1996, su vittime di suicidio, omicidio e incidenti domestici e stradali.
[8] Almeno due familiari, conviventi o vicini della vittima, ivi compresi i medici curanti. La selezione di molteplici fonti di informazione risponde alla necessità di incrociare i dati raccolti, al fine di saggiarne l’affidabilità, mentre le modalità di somministrazione dell’intervista devono tendere a garantire l’impermeabilità delle fonti rispetto a contaminazioni reciproche: se ne raccomanda, pertanto, lo svolgimento in forma privata e individuale (Bonicatto, Garcìa Pèrez & Rojas Lòpez, 2006).
[9] Unanimemente considerato il fondamento della moderna investigazione scientifica criminale (Picozzi & Zappalà, 2002), il c.d. principio di interscambio di Locard si condensa nell’assunto “ogni contatto lascia una traccia”: quando, cioè, due entità fisiche entrano in contatto, si realizza uno scambio apprezzabile di elementi tra di esse.
[10] Trattasi della c.d. applicazione criminologica, ossia alle vittime di omicidio, nonché alle vittime di incidenti stradali e domestici, entrambe proposte da Bonicatto, Garcìa Pèrez & Rojas Lòpez (2006).
[11] Come sottolineano Picozzi & Zappalà (2002, 127), tuttavia, «le maggiori critiche all’approccio statunitense si fondano sulla contestata assenza di scientificità e sulla mancanza di divulgazione di prassi metodologiche e risultati conseguiti, attraverso pubblicazioni accessibili alla comunità internazionale». Tale approccio peccherebbe, insomma, di eccessiva autoreferenzialità.
[12] L’assunto di base della cognitive interview è che l’oblio non sia necessariamente causato dalla perdita dell’informazione, bensì dalla sua non-accessibilità da parte del soggetto. Scopo della IC è quello di rendere il dato mnestico accessibile al testimone mediante quattro strategie sequenziali, consistenti nel ricreare il contesto concomitante all’evento; riferire qualsiasi informazione, anche se parziale o ritenuta irrilevante; riferire gli eventi in ordine diverso, alternando differenti strategie di recupero; cambiare prospettiva soggettiva nel resoconto (Gulotta, 2008).
[13] Dai c.d. fattori cognitivi, ossia quelli riconducibili a codifica, immagazzinamento e rievocazione dell’informazione, si distinguono i fattori di livello metacognitivo, i quali, agendo sui processi cognitivi, regolano strategicamente la performance mnestica (Pansky, Koriat & Goldsmith, 2005): in particolare, monitorano l’informazione recuperata e operano scelte in merito ad essa (ad es. se riportare o meno l’informazione in sede di colloquio).
[14] Ci si riferisce alla differenza tra la codifica dello stimolo associata alla consapevolezza della sua successiva rievocazione (codifica intenzionale) e la codifica che avviene in assenza di detta consapevolezza (codifica accidentale), quando, cioè, il soggetto è ignaro di dover sostenere un test mnemonico. Numerosi studi hanno dimostrato che la codifica del primo tipo garantisce migliore accuratezza nella testimonianza (Gulotta, 2008).
[15] L’esempio citato da Gulotta (2008) riguarda il testimone di un sinistro stradale che, a distanza di tempo, ricorderà il coinvolgimento di una «autovettura» (livello intermedio) e non, più genericamente, di un «veicolo» (livello sovraordinato). Lo stesso, tuttavia, potrebbe non essere in grado di richiamare alla memoria marca e modello della stessa (livello subordinato).
[16] Letteralmente «oblio indotto dal recupero», è una forma di oblio incidentale consistente nella temporanea inaccessibilità di materiale associato a informazioni precedentemente recuperate. Orbene, il ricordo di uno specifico evento o di una particolare informazione può essere ostacolato da tracce mnestiche ad essi associate, ma non rilevanti rispetto alle esigenze del contesto o dell’attività in corso. In seguito, è possibile che proprio le tracce mnestiche irrilevanti siano recuperate con maggiore sforzo (Stramaccia, Braga, Fardo et al., 2015).
[17] Le osservazioni che seguono sono scaturite dai colloqui con il compianto Prof. Salvatore Luberto, già Direttore del Dipartimento Integrato di Servizi Diagnostici e di Laboratorio e di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia nonché Direttore della Scuola di Specializzazione in Criminologia clinica dell’Ateneo modenese, del quale mi pregio essere stata allieva e collaboratrice fino alla sua morte.