Identità personale: filosofia, scienza e criminologia
Quando in filosofia si parla del problema della “identità personale”, ci si riferisce al problema di comprendere e spiegare come una persona possa rimanere la stessa pur attraverso i cambiamenti fisici, psichici, esistenziali cui va incontro nell’arco della sua vita. Si tratta di un problema che risale all’origine stessa della filosofia e che sfuma spesso nel problema psicologico e in quello più propriamente sociologico. Ogni essere umano ha bisogno di “conoscere la propria identità”, ossia di possedere di se stesso un’immagine unitaria che possa dare un senso alle sue azioni e alla sua vita. L’immagine di sé, però, non si radica soltanto in una memoria individuale, in una dimensione psicologica, ma trova linfa anche nella memoria collettiva del gruppo di appartenenza. In questo senso la filosofia si è trovata ad affrontare un problema concreto che le società umane hanno evidenziato sotto forme diverse in determinati periodi storici, ossia quello dell’assoluta certezza che un individuo sia chi pretende di essere.
Il tema dell’identità diventa centrale nella filosofia, nella letteratura, nel teatro e nell’arte nel periodo rinascimentale. L’intensificarsi di rapporti commerciali e economici tra le varie città e regioni europee, aveva portato a un incremento rapido e drammatico della corrispondenza scritta ufficiale, fenomeno soprattutto evidente nell’Europa continentale. L’incremento della corrispondenza scritta comportò di necessità un incremento nel numero di messi che circolavano per l’Europa; si trattava di persone che recavano informazioni di natura militare ed economica spesso vitali, proprio per questo era cruciale la loro corretta identificazione.
In Europa, tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento, si sviluppa un sistema di lasciapassare e passaporti a uso di questi messi, preso successivamente da modello per lo sviluppo dei documenti di identità. È tuttavia con le guerre di religione del seicento e il grande movimento di truppe e comunità civili, che comportarono il consolidarsi degli Stati nazionali, ristretti in ben definiti confini territoriali, che la necessità di accertare l’identità degli individui divenne cruciale. Per secoli, infatti, la comunità locale era stata la principale garante dell’identificazione personale: le identità erano certificate dalla testimonianza diretta.
Agli inizi del cinquecento la trasmissione patronimica trovò una sua prima stabilizzazione nei registri parrocchiali di nascita; la certificazione ecclesiastica di nascita divenne prova della raggiunta maggiore età a fini ereditari e di usufrutto di benefici. Questo nascente sistema subì una grave crisi con la rottura provocata dalla riforma luterana; i protestanti – come prima gli ebrei – non comparivano nei registri parrocchiali cattolici e, in molti paesi dell’Europa continentale, si interruppe la rete di registrazione civile basata sulle strutture ecclesiastiche. Nel frattempo, i processi di migrazione interni ai paesi europei si intensificarono mentre si indebolì la capacità di identificazione connessa all’appartenenza ad una comunità preesistente.
In Francia il sistema dei registri di nascita divenne progressivamente statale e già nella prima metà del seicento sostituì completamente il sistema di accertamento dell’identità tramite testimoni; altri paesi europei seguirono un doppio regime – religioso e civile – mentre in Gran Bretagna il sistema dell’identificazione anagrafica rimase fluttuante sino alla prima guerra mondiale.
Il filosofo tedesco Johann G. Fiche, nei “fondamenti del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza”, alla fine del settecento, in un momento in cui il processo di costruzione dell’identità civile era ormai giunto al suo compimento scrisse che: “il principio cardine di uno stato ben regolato dalla polizia è questo, ogni cittadino dovrà essere in ogni momento ed in ogni posto riconoscibile come questa o quella persona”.
L’identità per la scienza: cenni storici
Il concetto di identità inteso in senso più scientifico, viene reso più chiaro facendo ricorso alla classica equazione di Locard “0 = 0”, nota come “principio dell’identità assoluta”, la quale afferma che ogni cosa è identica a se stessa e non può essere che se stessa. Ciò significa che l’identità è la qualità di una cosa che fa si che essa sia quella sola e si differenzi da ogni altra cosa. Tale concetto è di fondamentale importanza nella materia delle impronte digitali in quanto sancisce che ogni individualità non può mai essere riferita altro che a sé, per cui non troveremo mai due impronte digitali uguali. A questo punto viene spontaneo chiedersi come sia possibile effettuare un confronto fra due individualità se, per definizione, ce lo impedisce il principio di “identità assoluta”, la risposta ci viene data dal “concetto di identità relativa”, ossia, la possibilità di raffronto esistente tra due termini di paragone che, pur essendo espressione di due distinte individualità (in senso assoluto), possono anche considerarsi identici fra di loro, in quanto modi di essere di una medesima realtà; un esempio tipico è la possibilità di confronto esistente fra l’impronta papillare rilevata sul luogo di un reato e l’impronta corrispondente della persona sospettata. Ulteriore corollario a quanto detto risulta essere il concetto “dell’omogeneità dei termini di confronto”, per cui se è possibile confrontare, ai fini di valutarne l’identità (in senso relativo), due impronte digitali, due manoscritti, due proiettili, non è possibile comparare due elementi di diversa natura quali per esempio un’impronta digitale e un manoscritto. Quindi con il termine “identificazione”, si intende l’attività tecnico-scientifica diretta a stabilire l’identità di una qualsiasi materialità, nel caso specifico, l’identità di una persona.
La parola identità deriva dal latino identitas, idem esse ossia “lo stesso, il medesimo”. Questo riassume in sé due concetti: il confronto fra due termini e il giudizio che ne scaturisce. L’uguaglianza di un soggetto rispetto a se stesso è la qualità che lo distingue da qualsiasi altro. Nessun individuo può identificarsi con un altro, cioè essere se stesso e al contempo un altro soggetto; esso è solo se stesso ed è identico a se stesso solo nell’istante in cui lo si osserva.
Ma cosa si intende per identificazione personale? Innanzi tutto è necessario specificare che l’identificazione personale ha rappresentato fin dalle origini, il principale problema della lotta contro la criminalità; che in tempi più o meno remoti, in paesi più o meno evoluti, sono sempre stati allo studio mezzi e modi per realizzarla. L’identificazione personale rappresenta, oltre che una pura esigenza della società per la sua difesa, la possibilità di poter in qualsiasi momento dimostrare che è un determinato cittadino è solamente se stesso e non altri, basti pensare agli innumerevoli casi di scomparsa di persone o di rinvenimenti di cadaveri, o di identificazione a seguito di calamità (disastri aerei, terremoti, inondazioni), per giungere a quello più complesso dell’immigrazione extracomunitaria regolare e clandestina. Da ciò derivano i concetti di identità preventiva e identità giudiziaria: la prima si occupa, appunto, dell’identificazione di una persona indipendentemente dalla commissione di un reato; la seconda, invece, entra in funzione successivamente in conseguenza del compimento di un reato, contribuendo all’esame dei vari elementi (tracce, impronte, ecc..) per poter risalire alla persona cui gli stessi si riferiscono.
Nelle società più evolute, il problema dell’identità personale si pose soprattutto in relazione all’accertamento della responsabilità dell’individuo in ordine alla commissione di un reato; questione che non risultava difficile nel caso in cui il soggetto veniva colto in flagrante, ma che si presentava aleatorio nel caso in cui il soggetto, una volta commesso il reato, avesse fatto perdere le proprie tracce, rendendo quasi impossibile la sua identificazione. Quindi è lecito aspettarsi che, con il progredire delle comunità, anche le iniziali difficoltà legate al riconoscimento e alla cattura dei colpevoli, cominciasse a preoccupare notevolmente, tanto da far riservare loro non poche energie ed attenzioni.
Nell’antica Roma, l’investigazione sui crimini venne affidata ad appositi magistrati, i “questori” (dal verbo “quaero” ossia cercare, informarsi, inquisire). Le comunicazioni ai vari uffici di Polizia erano inoltrate a mezzo di veloci corrieri e le persone da ricercare venivano descritte, “in circolari”, nella maniera più completa possibile, riportando i connotati (appartenenza etnica, età, colore dei capelli e degli occhi, presenza o meno di barba e baffi), i connotati salienti (tipo di statura, forma del viso e di tutto quello che compone il viso), i contrassegni (porri, nei, cicatrici, tatuaggi); al fine di facilitare il compito degli investigatori. A quei tempi l’oggetto principale delle ricerche erano gli schiavi fuggiti e considerata l’importanza economica di tale tipo di manodopera a buon mercato, ci si doveva curare espressamente di rilevare e registrare i caratteri fisici degli stessi. Tale metodologia tecnica viene fondamentalmente seguita ancora oggi. Dopo la caduta dell’impero romano, con il decadimento generale delle istituzioni, anche l’attività di polizia ebbe delle battute di arresto sia per quanto riguarda l’organizzazione tecnica dei servizi di identificazione che gli scambi di informazioni fra territori diversi.
Nel medioevo, poi, le funzioni di polizia si esplicarono soprattutto nell’ambito dei comuni, delle signorie, dei singoli stati, venne meno la collaborazione fra le varie organizzazioni territoriali, anche se confinanti, e i nominativi delle persone da ricercare furono resi pubblici attraverso banditori che informavano i cittadini delle malefatte dei ricercati, delle taglie pendenti sul loro capo, delle severissime pene comminate a chi desse loro asilo o ne conoscesse il nascondiglio. Nacquero cosi i “bandi” e le persone descritte in essi presero il nome di “banditi”. tale sistema di ricerca durò per parecchi secoli fino al ritorno delle circolari nella seconda meta del XVIII secolo. La suddivisione politica dell’Italia, faceva sì che ogni stato della nostra penisola avesse proprie norme in materia di polizia, queste però, per quanto riguarda l’identificazione, non differivano molto fra di loro essendo tutte basate sulla descrizione personale, più accurata possibile, dei “contrassegnati” (termine con il quale si designavano i ricercati).
Nel regno del Piemonte dopo la restaurazione monarchica sotto Vittorio Emanuele I, fu costituita, il 21 aprile 1814, l’Arma dei Carabinieri, alla quale furono affidati tutti i compiti di polizia compresi quelli dell’identificazione e dell’arresto dei criminali, ad essa, infatti, andavano comunicati tutti i contrassegni dei vari briganti, ladri, assassini, evasi ed altri inquisiti. Nonostante l’istituzione dell’amministrazione della Pubblica Sicurezza, con legge dell’11 luglio 1852, il problema dei ricercati continuò a sussistere e, se da un lato permise l’impiego di nuove forze nella lotta alla criminalità, non consentì, però, di ottenere i risultati sperati a causa dell’inadeguatezza degli strumenti tecnici a disposizione delle forze dell’ordine.
Non diversa dalla situazione italiana era quella degli gli altri stati europei dove, pure in passato, per impellenti necessità di difesa sociale contro la criminalità, erano state adottate drastiche soluzioni quali quelle delle mutilazioni e del marchio a fuoco a fini identificativi, si pensi alla Francia dove si usava marchiare a fuoco le spalle dei condannati con il giglio (emblema dei re) e, accanto, la lettera iniziale corrispondente alla pena inflittagli (“TF” = lavori forzati) o indicante che tipo di rei fossero (“V”= ladri, “F”= falsari, “A” = adultera). Tutti marchi aventi lo scopo di costituire un elemento di identificazione indelebile. In mancanza di questo o di altri elementi di identificazioni quali cicatrici e tatuaggi, era sufficiente e valeva come prova inoppugnabile il semplice riconoscimento della persona, basato sulla memoria visiva degli investigatori.
Dalla pesante realtà del marchio, alla fragile evanescenza della memoria umana, nei vari paesi europei si avvertiva sempre più, in maniera impellente, la necessità di un mezzo di identificazione personale, individuale, preciso, immutabile nel tempo che fornisse una prova di assoluta certezza. Il metodo più immediato per giungere alla identificazione rimaneva ancora il riconoscimento e nell’intento di perfezionarlo, nella Parigi del 1830, venne ideato il sistema della “parata”, che consisteva nell’obbligo fatto agli ispettori di polizia di recarsi presso le carceri giudiziarie e di far camminare in circolo, attorno a loro, per due o tre ore i detenuti, affinché i loro volti rimanessero bene impressi e potessero inequivocabilmente essere riconosciuti ovunque e sotto qualunque travestimento. Tale sistema, la cosiddetta “memoria fotografica”, era l’unico e indispensabile bagaglio del poliziotto in un’epoca che non conosceva ancora un vero metodo scientifico di identificazione, tutto ciò risultava inefficiente, considerata anche la precaria organizzazione della polizia stessa. Forte, quindi l’esigenza di definire un metodo “scientifico” che riuscisse a ricostruire l’immagine della persona in modo affidabile e permettesse di individuare degli elementi precisi e immutabili nel tempo.
Il primo problema, ritrarre la persona, viene risolto verso la metà del XIX secolo con l’invenzione della fotografia. Questa nuova tecnica, che muoveva i primi passi con il dagherrotipo (dal nome del suo scopritore Louis Daguerre), consisteva in una lastra d’argento o di rame che, ricoperta di uno strato gelatinoso a base di sali d’argento, riproduceva opportunamente trattata, l’immagine positiva di un soggetto. Senza il negativo, però, mancava la possibilità di disporre di un largo numero di copie positive, quindi, per poter diffondere la stessa immagine agli organi di Polizia su scala nazionale, bisognava affrontare l’impresa non indifferente di ritrarre il soggetto tante volte quante erano le immagini occorrenti, impresa anch’essa difficile, in quanto la “posa”, pur notevolmente abbreviata rispetto ai primissimi tempi, richiedeva ancora dai 20 ai 50 minuti. L’operatore fotografico dell’epoca stava a metà tra il tecnico e il pittore, dovendo colmare con l’opera di ritocco manuale, le lacune tecniche della riproduzione dell’immagine che, proprio a causa della posa troppo lunga e del materiale sensibile ancora rudimentale, risultava assai poco definita nei lineamenti. Anche quando la dagherrotipia lasciò il passo alla vera e propria fotografia, tutti i criminali che venivano ritratti, mal sopportando il nuovo espediente, lo osteggiavano come meglio potevano, rendendo a volte praticamente impossibile la realizzazione della fotografia e di conseguenza il loro riconoscimento.
Nel 1854 in Svizzera, un giudice impiega per la prima volta la nuova tecnica per ritrarre più volte un noto criminale che si nascondeva sotto falso nome, diffonde la sua immagine nel paese e riesce a catturarlo: nasce così la fotografia segnaletica. All’inizio le categorie di soggetti fotografati sono soprattutto sospetti e rei di delitti contro la persona e la proprietà; dal 1860 si diffondono i ritratti di briganti e dagli anni settanta anarchici e socialisti.
Dattiloscopia, personaggi e sistema di classificazione
In Francia nel 1879, Alphonse Bertillon, ausiliario della prefettura di Polizia di Parigi, introduce il primo metodo scientifico di segnalamento che segna la nascita della criminalistica scientifica.
Bertillon inizia uno studio antropometrico sui delinquenti fermati dalla sureté parigina, la più antica e famosa polizia giudiziaria fondata e diretta per più di sedici anni da Francois Vidocq, unico esempio nella storia di un bandito divenuto detective. Dopo i primi importanti successi, la sureté conosce il problema legato alla difficoltà oggettiva della sicura identificazione del reo, fino a quel momento ottenuta solamente dall’utilizzo del metodo della “memoria fotografica”.
Bertillon, influenzato positivamente dalle teorie dell’astronomo e statistico belga, Adolphe Jacques Quetelet, soprattutto per lo studio da egli effettuato sulla distribuzione dei reati nella società in base a statistiche criminali[1], riuscì a dimostrare, al capo della polizia francese, la possibilità di identificare i singoli criminali mediante un innovativo sistema di identificazione, successivamente definito appunto bertillonage, che comprendeva un segnalamento fotografico, composto da due fotografie dell’individuo: frontale per agevolare l’identificazione delle persone conosciute; di profilo per rilevare la forma caratteristica di naso ed orecchio. Bertillon stesso ideò una sedia girevole per agevolare la doppia ripresa fotografica fronte/profilo.
Un segnalamento antropometrico, che consisteva nell’effettuare undici misure di distanze corporee:
- Misure d’insieme: 1) Statura; 2) Apertura delle braccia; 3) Altezza del tronco.
- Misure della testa: 4) Lunghezza; 5) Larghezza; 6) Diametro bizigomatico; 7) Lunghezza dell’orecchio destro.
- Misure degli arti: 8) Lunghezza piede sinistro; 9) Lunghezza dito medio sinistro; 10) Lunghezza dito mignolo sinistro; 11) Lunghezza avambraccio sinistro.
Un segnalamento descrittivo generale sull’individuo, scrupolosamente minuzioso, che egli stesso definì “le portrait parlè” (ritratto parlato) tra cui:
- L’aspetto generale dell’individuo: andatura definita molto lenta, molto rapida, a passi piccoli, a passi grandi, leggera, pesante, saltellante, maestosa, rigida, dondolante, sciancata e zoppicante; gesto volontario e involontario indicato con abbondanza o assenza di gesti; sguardo, descritto dritto o obliquo, fisso o mobile, lento o rapido, fuggente o franco; mimica fisionomica sintetizzata nei tic nervosi.
- La voce e il linguaggio: descrizione del timbro della voce, grave o acuto; della voce femminile o maschile, dei difetti di pronuncia come il sigmatismo, il grammatismo e la balbuzie.
- Il modo di vestire: esame degli indumenti sia dal punto di vista della decenza, della sudiceria e della conservazione che della provenienza (descrizione risultava particolarmente utile per capire la posizione sociale dell’individuo segnalato).
Tutto questo utilizzando:
- Termini che esprimono una dimensione, i quali permettono di rappresentare, con segni convenzionali, le differenze di intensità in eccesso o in difetto rispetto ai tre valori fondamentali: piccolo, medio, grande (p, m, g)[2].
- Termini che descrivono una forma o una pendenza;
- Termini che danno un’indicazione cromatica.
Bertillon aveva inoltre sviluppato un sistema di registrazione delle schede antropometriche tale che, in pochi minuti, si poteva stabilire se le misure fossero già presenti o meno nello schedario.
Il ”bertillonage” però, nella sua attuazione pratica, presentò subito delle difficoltà obiettive pregiudiziali ad un facile impiego, in quanto le undici misure base precitate, necessitavano di una rilevazione estremamente accurata, e quindi non troppo “soggettiva”. Le prime schede di segnalamento vennero compilate alla fine del 1882, ma già nel 1892 venne giudicato, da una commissione di esperti inglesi, tra cui Francis Galton, come un sistema “più di carattere teorico che pratico”. Il sistema fu ufficialmente abbandonato con il congresso internazionale di Polizia scientifica di Monaco nel 1914. Iniziò così lo studio sull’identificazione personale, attraverso le impronte digitali, branca della criminalistica che prenderà il nome di dattiloscopia e il conseguente sviluppo del sistema di classificazione. A fondamento della dattiloscopia vi sono le conoscenze scientifiche relative alla costituzione dell’epidermide.
Il medico e biologo italiano Marcello Malpighi, professore di anatomia dell’Università di Bologna, nel 1686 descrisse analiticamente le impronte digitali e ne individuò la composizione in spirali, circoli, curve e creste cutanee. Allo stesso, si deve il riconoscimento nell’epidermide umana di cinque strati: basale, spinoso, granuloso, lucido, corneo; tali ricerche si dimostrarono talmente importanti che lo strato basale è anche denominato, in suo onore, “corpo mucoso del Malpighi”. È da precisare inoltre che lo strato corneo allorché si desquama e cade, viene continuamente ricostruito dagli strati sottostanti conservando sempre le medesime caratteristiche; tale fenomeno si verifica per tutti gli strati dell’epidermide, ragion per cui a meno che non si distrugga lo strato basale germinativo, avremo per tutta la vita dell’uomo la ricostruzione dell’epidermide e quindi l’immutabilità delle impronte digitali.
Il sistema di riconoscimento delle impronte digitali e relativa catalogazione, fu introdotto nel 1892 da Francis Galton, nel libro Fingerprints dove evidenziò i tre principi basilari della dattiloscopia: 1) l’immutabilità, le stesse non possono subire variazioni morfologiche essendo di tipo permanente; 2) la variabilità o unicità, poiché una è differente dall’altra; 3) la classificazione, tutte le impronte sono catalogabili e classificabili.
Lo stesso Galton stabilendo come le forme delle impronte digitali, nonostante la loro difformità, potessero essere ricondotte ai quattro tipi fondamentali, non riuscì a dare una subclassificazione delle impronte, tale merito spettò nel 1891 al medico argentino, di origine dalmata, Juan Vucetich che, presentò in Argentina, una prima ufficiale classificazione nel settembre del 1896, pubblicata successivamente nella versione definitiva nel libro Dactiloscopia comparada del 1904. Per quanto riguarda l’Europa il primo sistema di identificazione delle impronte digitali fu elaborato in Inghilterra da Sir Edward Richard Henry, commissario di Scotland Yard e dirigente del Metropolitan Police Fingerprint Bureau, che sviluppò un sistema di classificazione, esposto nel 1897 nella sua pubblicazione Classification and uses of fingerprints. Henry si avvalse di due precedenti articoli pubblicati sulla rivista Nature[3], nel 1880, da due illustri pionieri della dattiloscopia: da Sir William Herschel, funzionario inglese, di origine tedesca, della Old West India Company of Bengala e successivamente dal dottor Henry Faulds, medico presso l’ospedale Tsukiji di Tokio. In Italia, il funzionario di Polizia, Giovanni Gasti, elaborando i sistemi citati, formulò la “nostra” classificazione successivamente denominata appunto classifica dattiloscopia Gasti, che ebbe il pregio di unire ad un’estrema semplicità, rispetto alle precedenti, superiori caratteristiche funzionali e pratiche.
Morfologia delle impronte papillari
Le impronte si producono a mezzo di deposito dell’essudato e cioè di un composto variabile prodotto dal nostro organismo e eliminato dai pori posizionati sulla sommità delle creste dermiche. È formato dal 98% di acqua, mentre la restante parte è composta di materie organiche (urea, aminoacidi, zuccheri, sostanze grasse) e inorganiche (ammoniaca, cloruro di sodio, solfati e fosfati). La qualità e la quantità di essudato è variabile da persona a persona e varia in base alle condizioni climatiche, alle condizioni fisiche, allo stato di stress, alla temperatura corporea. La pelle presenta nella superficie delle palme delle mani e delle piante dei piedi un particolare disegno, il dermatoglifo caratterizzato da piccole sporgenze, dette creste papillari e da depressioni dette solchi.
La particolarità delle impronte digitali consiste nel fatto che le stesse si formano già nel periodo di vita intrauterina e sono diverse da individuo a individuo, tanto è vero che i gemelli hanno lo stesso dna ma non le stesse impronte digitali. Le creste papillari non subiscono modificazioni nel corso della vita del soggetto, in quanto i cinque strati che costituiscono l’epidermide hanno la proprietà di rigenerare quello superiore con le medesime caratteristiche preesistenti. I dermatoglifi si possono quindi definire perenni, immutabili, individuali, classificabili.
Le impronte digitali sono costituite da tre sistemi di linee papillari: basilare, marginale, centrale, corrispondenti ad altrettante zone del polpastrello.
Il sistema basilare o basale riguarda le linee più o meno orizzontali situate alla base del polpastrello, parallele all’articolazione della falange
Il sistema marginale o periferico riguarda le linee che partendo da un lato del polpastrello descrivono un arco e fuoriescono dal lato opposto.
Il sistema centrale o precipuo riguarda le linee che caratterizzano il tipo d’impronta e che si trovano nello spazio compreso fra i due sistemi precedenti.
Per quanto riguarda l’impronta palmare, le parti di riferimento sono caratterizzate dalla zona interdigitale (parte superiore del palmo), dalla zona tenare (parte bassa angolare rivolta verso il pollice), e da quella ipotenare (parte angolare rivolta verso il mignolo).
Le caratteristiche delle impronte digitali sono rappresentate dalla posizione dei contrassegni caratteristici, i cosiddetti punti d’identità quali: estremi, interruzioni, uncini, interlinee, incroci, tratti, punti, isolotti, occhielli o occhi e intrecci.
1) Uncino in basso, 2) Tratto, 3) Biforcazione in alto, 4) Interlinea, 5) Occhio, 6) Biforcazione in basso, 7) Uncino in alto, 8) Isolotto, 9) Punto, 10) Deviazione
La classificazione è rappresentata dalle linee che formano i “caratteri generali” di un impronta e sono riconducibili a quattro figure: adelta o arco “arch”, monodelta con cappio a destra “loop right”, a sinistra “loop left”, bidelta (o figura chiusa), composta o vortice “whorl”.
Nella figura adelta manca il sistema centrale, essa è caratterizzata dalla presenza di due soli sistemi di linee papillari: il basilare e il marginale. In corrispondenza del nucleo centrale di tale tipo, le creste papillari presentano una curvatura più o meno accentuata verso l’alto così da simulare un arco più o meno acuto, per questo le impronte adelta vengono chiamate anche figure ad arco. La mancanza o la scarsa definizione del sistema centrale non permette di riscontrare il delta (da qui il nome della figura adelta), costituito dalla zona di adeguamento delle linee di tutti e tre i sistemi, chiamato così perché per la sua conformazione ricorda proprio la lettera maiuscola dell’alfabeto greco “delta”.
La figura monodelta, lo dice la parola stessa, è caratterizzata dalla presenza di un “delta” e oltre a presentare il sistema basilare e marginale ha un sistema centrale formato da creste papillari che originandosi da un lato del polpastrello, dopo aver assunto uno sviluppo ad ansa, fuoriescono dallo stesso lato da cui si sono originate.
Le figure bidelta, anche qui lo dice la stessa parola, sono caratterizzate da due delta, infatti il sistema centrale si presenta come un complesso di linee che si chiudono in cerchi o in spirali o in altri disegni, creando ai due lati un delta.
Nella figura composta il sistema centrale è caratterizzato da linee a forma di anse che si accavallano ad altre anse o ad archi, creando ai due lati un delta. Eccezionalmente i delta possono essere anche più di due.
Tecniche di esaltazione delle impronte
Con l’evoluzione della tecnologia, nascondere il proprio “autografo” agli investigatori è diventato sempre più difficile. Attualmente si possono rilevare le impronte digitali da quasi tutte le superfici, dalla plastica alla carta, dal metallo al legno e addirittura sino alla pelle umana!
Gia nel 1954, l’utilizzo della tecnica della ninidrina, permetteva l’estrapolazione, attraverso un processo chimico, di un frammento d’impronta lasciato sulla carta; successivamente nel 1982, la scoperta della tecnica del cianoacrilato, tuttora in uso, ha consentito di esaltare eventuali impronte latenti su vari materiali porosi, sottoponendoli ai vapori di una super colla.
Esistono ulteriori metodi per l’esaltazione delle impronte latenti:
- crimescope cs-16, che consente di evidenziare, grazie alla possibilità di selezionare nel campo ultravioletto/visibile/infrarosso le radiazioni elettromagnetiche emesse da una opportuna sorgente luminosa (lampada allo xenon), le impronte preventivamente trattate chimicamente con composti fluorescenti, quali il dfo (1,8-diaza-9 fluorene) o il cianoacrilato applicato in associazione a coloranti fluorescenti quali il giallo basico.
- scenescope uv imager, strumento simile al crimescope cs-16 ma caratterizzato da una migliore trasportabilità ed in grado di consentire all’operatore, grazie ad una maschera ottica del tipo “realtà virtuale” con visione diretta dell’oggetto in esame, di rinvenire impronte latenti su superfici non porose senza un loro pretrattamento chimico.
È utile per ultimo sapere che attualmente in Italia, esiste una banca dati delle impronte digitali, conosciuta come A.F.I.S., acronimo di lingua inglese di Automatic Fingerprint Identification System, utilizzato dal casellario centrale della Polizia scientifica del Ministero dell’Interno. Varato nel 1999, è un particolare sistema hardware e software, che nasce dalla necessità di ridurre i normali tempi di acquisizione e catalogazione dei cartellini dattiloscopici e dalla necessità di effettuare una ricerca rapida ed efficace delle impronte conosciute in una banca dati unica. Le impronte digitali vengono codificate attraverso un algoritmo, gestito dal sistema. Le ricerche vengono eseguite sia su set di 10 impronte, sia su frammenti d’impronta digitale, sia sulle impronte palmari.
La stessa tecnologia è utilizzata, oltre che dalle forze di Polizia italiane, dal sistema europeo eurodac, il casellario delle impronte europeo situato in Lussemburgo che raccoglie i dati dei cittadini appartenenti alla comunità extra-europea che chiedono asilo politico o che entrano clandestinamente nel territorio dell’unione e dall’F.B.I. americana. Tutto ciò consente ai diversi sistemi di colloquiare tra loro in modo immediato, facilitando la cooperazione internazionale per l’assicurazione alla giustizia del reo.
In Italia l’archivio del casellario centrale d’identità contiene i cartellini segnaletici, comprensivi di dati fotografici e biometrici di circa 4 milioni di persone sottoposte a fotosegnalamento, per un complessivo totale di circa 60 milioni di impronte.
Sviluppo della dattiloscopia giudiziaria
1812: In Francia, Francis Vidocq, fonda il primo dipartimento investigativo ufficiale d’Europa “la “suretè “.
1842: Lo stile investigativo alla Vidocq approda in Gran Bretagna.
1858: In India, William Herschel, inizia a compiere alcuni esperimenti privati sulle impronte digitali
1870: Inghilterra: Arthur Orton reclama il titolo di baronetto di Tichborne spacciandosi per l’erede legittimo scomparso quindici anni prima. Questo induce il dottor Henry Faulds, medico missionario scozzese che lavora in Giappone, a concepire l’idea delle impronte digitali.
1877: Sir William Herschel, ancora in India, utilizza le impronte digitali come firme apposte sugli atti notarili e sui mandati del tribunale
1878: Faulds scopre delle impronte digitali su di in vaso antico e comincia a compiere esperimenti su vasta scala
1880: Lo stesso Faulds e’ il primo a suggerire pubblicamente sulla rivista “nature”, l’uso delle impronte digitali come metodo per l’identificazione personale in ambito criminale
1883: A Parigi, Alphonse Bertillon, identifica per la prima volta un criminale recidivo usando il nuovo sistema antropometrico di misurazione da lui inventato, il “bertillonage”
1886: Faulds tenta di convincere Scotland Yard ad adottare il sistema delle impronte digitali
1888: Francis Galton compie alcuni esperimenti con le impronte digitali
1892: In Argentina, la prova dell’impronta digitale porta una madre a confessare l’omicidio dei suoi due figli, ma la notizia raggiungera’ l’Europa solo diversi anni dopo. Nello stesso anno, Francis Galton, nel libro “Fingerprints”, introduce il sistema di riconoscimento delle impronte digitali e relativa catalogazione.
1893: Edward Henry, capo della Polizia del Bengala, aggiunge le impronte dei pollici ai rilevamenti antropometrici
1894: La Gran Bretagna adotta il sistema di identificazione basato sul metodo antropometrico e dattiloscopico
1896: Londra, Adolf Beck, viene imprigionato per cinque anni dopo essere stato erroneamente identificato sia dalla Polizia che da un testimone, come un noto truffatore. Le impronte digitali avrebbero poi dimostrato l’innocenza dell’uomo
1896: Nel settembre il medico argentino di origine dalmata, Juan Vucetich, presenta nel paese sud-americano una prima ufficiale classificazione, pubblicata nella versione definitiva nel libro “dactiloscopia comparada” del 1904.
1897: Azizul Haque, assistente di Edward Henry, inventa un sistema di classificazione delle impronte più pratico
1901: La Gran Bretagna adotta il nuovo sistema di classificazione, sviluppato da Haque, ma che sarà conosciuto come “sistema di classificazione Henry”
1902: Inghilterra: Harry Jackson, viene riconosciuto colpevole di furto sulla base delle impronte digitali, per la prima volta un’impronta e’ usata come prova in un’aula di tribunale
1902: In Italia, il funzionario di Polizia, Giovanni Gasti, elaborando i sistemi di classificazione esistenti, formulò la sua, successivamente denominata “classifica dattiloscopia Gasti”. Nasce in Italia, per merito del medico Salvatore Ottolenghi, la scuola di Polizia scientifica.
1904: Il Bureau of Identification americano, fonda un archivio per le impronte digitali
1905: Inghilterra: I fratelli Strutton sono processati e condannati a morte per l’omicidio dei coniugi Farrow grazie al frammento di impronta digitale trovato sulla scena del crimine.
1911: Stati Uniti, Thomas Jennings e’ il primo ad essere condannato per omicidio sulla base delle impronte digitali.
1999: l’FBI installa un enorme computer in grado di memorizzare le impronte digitali di 65 milioni di individui
Bibliografia
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[1]“La Physique Sociale”, 1835.
[2]Scala di Quètelet: piccolo – piccolo – (piccolo) – medio – (grande) – grande – grande, p – p – (p) – m – (g) – g – g;
[3]Rivista scientifica pubblicata fin dal 04/11/1869, con sede a Londra