Gli Archetipi dell’aggressività nella società contemporanea
«Non c’è musica migliore di centinaia di voci che urlano di dolore all’unisono!»
Kefka Palazzo, Final Fantasy VI
Nella struttura psichica junghiana, dove coscienza e inconscio rappresentano due sfere contrastanti ma integrantesi a vicenda, l’Ego costituisce una limitata porzione della psiche e, anzi, «[…] nelle principali situazioni della vita la coscienza dipende dall’inconscio[1]». Una posizione che richiama il costrutto teorico del padre indiscusso della Psicanalisi, sebbene la contrapposizione di Jung rispetto al Maestro Freud sia netta: mentre l’inconscio freudiano opera attraverso i contenuti rimossi nel corso dell’esperienza dell’individuo, quello junghiano reca in sé i segni delle esperienze accumulate dall’umanità nel suo sviluppo, fin dalle più lontane origini (Rapisardi, 2020). L’originalità della teoria dell’Allievo si fonda, invero, sul dualismo Inconscio individuale/Inconscio collettivo: se il primo identifica il deposito dei contenuti rimossi, ignorati dalla coscienza, – o perché privi di attualità e interesse o perché spiacevoli o incompatibili con essa (immagini, sentimenti, pensieri, ecc.) – quest’ultimo incarna il «bagaglio ancestrale» del genere umano, ossia i contenuti costituiti dalle esperienze primordiali dell’umanità, capaci di trasmettersi per via ereditaria, come la produzione onirica, i simboli e gli Archetipi. L’Inconscio collettivo è «[…] il luogo di una psiche oggettiva legata allo sviluppo filogenetico della specie umana e caratterizzata da immagini archetipiche e collettive (possedute da tutti gli uomini) che esprimono contenuti relativi all’uomo non in quanto individuo ma in quanto membro della specie umana[2]».
È nella «memoria inconscia[3]» che albergano gli Archetipi – dal gr. «arché» (inizio, principio originario) e «typos» (modello, esemplare) – contenuti mentali presenti in tutti i popoli e in tutte le culture e, pertanto, patrimonio universale. Strutture psichiche inconoscibili, la cui esistenza si palesa mediante il loro farsi immagine attraverso forme che riflettono le esperienze collettive e primordiali dell’umanità, esse organizzano l’esperienza e sono alla base di «modelli innati di comportamenti e prestazioni psicologiche[4]» Imago o immagine mitologica che determina la tendenza a percepire la realtà secondo forme tipiche costanti nei vari gruppi culturali e periodi storici, l’Archetipo non risulta mai accessibile direttamente ma affiora nel linguaggio figurato, nei miti, nei simboli onirici e nelle rappresentazioni folcloriche dei differenti gruppi umani. Le immagini archetipiche trovano la loro radice nell’istinto, quale predisposizione ingenita a reazioni codificate di fronte di eventi universali, come la nascita, la morte, l’amore. Il ricorso ai parallelismi culturali consente a Jung di validare le sue affermazioni: è, infatti, dal raffronto tra mitologie, religioni, creazioni artistiche, sogni (Carotenuto, 1971), fantasie e deliri dei malati di mente che emerge la tendenza di gruppi etnici differenti a rispondere, con modalità comportamentali ed espressive simili, a contenuti universalmente condivisi (Penzo & Scalini, 2007). Sulla scia delle teorie evoluzionistiche del tempo, Jung individua nell’Archetipo il risultato dell’acquisizione permanente delle esperienze fondamentali degli antenati, ereditariamente trasmessa, a cui attribuisce i connotati dell’innatismo, dell’apriorismo e della stabilità (Jung, 1959).
Quale sia la funzione dell’Inconscio collettivo junghiano è presto detto: esso riveste un ruolo adattivo, un efficace fattore di protezione dinnanzi ad angosce fondamentali, come quella per la morte propria o dei propri cari, che minaccerebbero di disgregare l’identità personale, così riducendo le probabilità di sopravvivenza della specie umana. Esemplificativo è il mito dell’immortalità dell’anima, immagine archetipica diffusa in quasi tutte le culture, che ha consentito ai popoli che l’hanno elaborata di superare la paura della morte e l’angoscia della separazione (Penzo & Scalini, 2017).
Nel pensiero junghiano, la dimensione collettiva inconscia e il concetto di Simbolo si embricano indissolubilmente: originario elemento della comunicazione, esprimente contenuti di significato ideale, dei quali esso diventa il significante, il Simbolo si fa elemento psichico, tanto che «[…] non vi è differenza tra formazioni organiche e psichiche. Così come la pianta produce un fiore, la psiche crea i suoi simboli[5]». La potenza dell’elemento simbolico rispetto alla dimensione psichica è incontestabile: posto che «il simbolo non è né allegoria né segno ma l’immagine di un contenuto che per la massima parte trascende la coscienza[6]», esso in grado di unificare la componente cosciente e quella inconscia, come la stessa etimologia del termine rivela («symbolon» dal gr. «symbollein», congiungere, tenere insieme, unire) (Verardi, 2011; Zucconi, 2015). La psiche, dunque, attraverso il collante simbolico, si manifesta come globalità di coscienza e inconscio (Carotenuto, 1971). «Il linguaggio simbolico è […] un meccanismo costante della mente umana. In questo, consiste la sua universalità. La sua capacità di andare oltre la razionalità ne fa, poi, la “lingua madre” dei sogni notturni[7]».
Nel linguaggio figurato, proprio dell’inconscio, l’Archetipo appare in forma personificata o simbolica, ed è negli Archetipi che si annida il patrimonio di simboli da cui tutte le culture, di tutti i tempi, attingono la loro forza. Il principale è quello della Grande Madre[8], la Madre Terra, l’elemento che dona la vita e la riprende in sé dopo la morte, perpetuando i cicli della Natura (Neumann, 1981); è l’Archetipo femminile, la cui doppia connotazione – positiva (saggezza, elevazione spirituale, generosità, capacità di consolare, assistere, curare) e negativa (oscurità, tenebre, regno dei morti[9], seduzione, angoscia, crudeltà, ineluttabilità) – continua ad alimentare l’odierno immaginario maschile (Gallino Giani, 1986). Ben si comprende, allora, il monito junghiano al recupero consapevole dell’Inconscio collettivo: l’uomo moderno, ha smarrito il rapporto con le sue radici, ed è attraverso la dimensione onirica che è possibile ristabilire un rapporto tra il mondo dei pensieri coscienti e le espressioni più primitive, di cui gli Archetipi e i Simboli corrispondenti sono l’epifenomeno. Di certo, il Simbolo junghiano vanta radici possenti e una sorprendente vitalità, se «ogni uomo e ogni epoca dà ai suoi simboli una nuova veste, e quella eterna verità che il simbolo trasmette, può parlarci in uno splendore sempre rinnovato[10]»: il mito dell’Ombra, con il suo evolversi nella rappresentazione collettiva, ne è un valido esempio.
Il Mito dell’Ombra
Archetipo, Simbolo e, al contempo, parte della personalità (Trevi & Romano, 2008), l’intera opera di Jung è permeata dal tema dell’Ombra nelle sue differenti accezioni: gli aspetti oscuri della psiche, gli atteggiamenti dell’individuo non sviluppati, la relazione con il Male (Raggi, 2006). Essa si articola nella dimensione personale – la propria storia, le proprie rimozioni, i tratti psichici, di cui l’ambiente sociale impone la rimozione (Bly, 1992) – e in quella collettiva, con il suo richiamo al mondo archetipico (Jacobi, 1993). L’Ombra personale racchiude i comportamenti e i pensieri individuali abbandonati e dimenticati, perché giudicati inappropriati dal contesto sociale: è il materiale sedimentato nell’inconscio, le parti scisse, rimosse, rifiutate, «il lungo sacco che ci tiriamo dietro[11]». Parte dell’inconscio composta da idee represse, debolezze, desideri, istinti e mancanze, contiene elementi inaccettabili per la società, per la propria morale e per i valori personali: include emozioni socialmente censurabili, come invidia, avidità, pregiudizio, odio e aggressività (Zucconi, 2015). L’Ombra collettiva, invece, «simboleggia il lato posteriore [oscuro] del dominante spirito del tempo[12]»: connessa con il tema del Male, è impersonata dalle figure demoniache presenti in tutte le culture e in ogni tempo.
La società attuale è prodiga di immagini che rimandano al mito junghiano nella sua dualità, a partire dal contrasto luce/ombra fino ad approdare al tema del «Doppio» e dell’«Alter Ego», ampiamente rappresentati nella letteratura e nelle arti figurative contemporanee. Emblematico, nella filmografia del secolo scorso, è il personaggio di Nosferatu, celebrato nell’omonima pellicola degli anni Venti da Murnau e poi ripreso da Herzog nel 1979, attraverso la magistrale interpretazione di Klaus Kinski. È il mito del Vampiro, che trae la sua linfa vitale dal sangue umano: creatura notturna, che non può stare nella luce e nel mondo ma che, per amore e desiderio della relazione, si lascia bruciare dal bagliore del giorno, simboleggia la solitudine esistenziale e l’amore impossibile (Ronchi, 2015). Recentemente, il mito è stato rivisitato dalla saga di Twilight – ciclo romanzesco di genere paranormal, poi divenuto un fortunato serial televisivo, narra le vicende amorose di un’adolescente perdutamente innamorata di un coetaneo vampiro – in cui la materia letteraria, inevitabilmente intarsiata di elementi fantastici e soprannaturali, ruota attorno alla struggente e burrascosa storia d’amore dei due protagonisti. Luce ed ombra, benché contrapposte, sono entità inscindibili, la cui esistenza presuppone necessariamente il suo contrario (Raggi, 2006), in un incessante gioco di specchi, come Hegel ebbe a precisare: «la pura luce e la pura oscurità sono due vuoti, che sono lo stesso. Solo nella luce determinata dall’oscurità, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce – quindi solo nell’oscurità rischiarata[13]».
Il Doppio e l’Alter Ego nelle arti figurative
L’incontro/scontro con il Doppio, altra figura mitica dell’immaginario collettivo, risale a Gilgameš, saga babilonese del Terzo Millennio a.C., che simboleggia l’Eroe nella sua lotta contro il Male, qui impersonato da Enkidu, il rivale ma inseparabile compagno, abbracciato ed amato «come una moglie[14]». Oggetto di numerose e differenti interpretazioni (l’amore fraterno, omosessuale, ecc.), ben potrebbe rappresentare l’accettazione incondizionata della parte oscura della personalità, quel processo interiore che Jung definisce «individuazione», il cui fallimento alimenta il paradosso dell’Ombra: «quanto più neghiamo e rimuoviamo, tanto più queste parti scisse riemergono in maniera incontrollata ed autonoma. L’Ombra appare tanto più densa e minacciosa quanto meno è cosciente[15]». Ciò potrebbe rendere ragione dell’inefficacia di stili educativi autoritari, fortemente repressivi, incapaci di contenere l’ostilità individuale poiché tendenti ad ostacolare la presa di coscienza della carica aggressiva, piuttosto che a favorirne un fisiologico processo di integrazione (Raggi, 2006). Significative, a tal proposito, le osservazioni di Recalcati: «la psicoanalisi […] non pensa che l’inconscio sia in sé criminogeno. Anzi. La cura analitica si fonda sulla possibilità di stringere una nuova alleanza con l’inconscio come luogo del nostro desiderio rimosso. Piuttosto è la coscienza, la sua spinta identitaria ad essere il luogo della malattia e della nostra maggiore sofferenza. Quando, cioè, il soggetto resta troppo attaccato al proprio Io e, nel nome di questo attaccamento, rinuncia, respinge, rimuove i propri desideri inconsci [16]».
Il mito del Doppio nella produzione cinematografica trova compiuta espressione nel film muto del 1920, diretto dal regista Wiene, Il Gabinetto del Dottor Caligari: acclamato dalla critica come capolavoro del cinema espressionista tedesco, la pellicola gioca con la sottile distinzione tra realtà e allucinazione, la doppia personalità, il labile confine tra razionalità e follia (Ferraris, 2019). Ancor prima, l’Alter Ego – espressione dell’ambivalenza del comportamento umano, della mente scissa tra coscienza e pulsioni irrazionali, delle dualità contenute negli opposti (Raggi, 2006) – alberga nel racconto gotico di Stevenson, Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mister Hyde (1886): romanzo popolare, autentico best seller dell’epoca vittoriana, costituisce il primo tentativo di esplorazione della mente umana da parte di un convinto fautore della duplice natura dell’uomo, scisso tra una parte buona e una malvagia. È ancora Recalcati a fornirne un’interpretazione in chiave psicanalitica: «[…] ciascuno di noi non porta forse dentro di sé, con sé, una personalità differente da quella che lo identifica socialmente, pubblicamente, da quella che noi crediamo di essere? Come dire che il soggetto non è mai Uno ma, come minimo, Due, cioè sempre diviso da sé stesso. Pirandello lo dice bene a suo modo mostrando che l’esistenza assomiglia ad un teatro dove ciascuno porta una maschera che nasconde un’altra maschera. Nel racconto di Stevenson colpisce però l’abisso che separa queste due personalità: il male e il bene, l’ombra e la luce, la ragione e la follia, la socievolezza e la violenza bruta[17]». Il monito dello psicanalista, tuttavia, è chiaro: «[…] l’ombra non è necessariamente il male. Il vero male – e di questo Jekyll non si rende conto – è pensare che l’ombra sia il male[18]».
Nemmeno il panorama musicale contemporaneo è estraneo al mito del Doppio, solo che si pensi alla controversa figura di Marilyn Manson, al secolo Brian Hugh Warner, cantautore, produttore discografico, attore e pittore statunitense, a partire dalla scelta dello pseudonimo: «un po’ Marilyn Monroe, un po’ Charles Manson[19], […] è una delle maschere più iconiche della musica rock. Un artista che […] ha fatto del make up grottesco e della trasgressione esplicita le cifre del suo successo diabolico[20]». La recentissima biografia dell’«Anticristo del Rock» mostra come, dietro al personaggio, si celi una persona complessa, poliedrica, perturbante, destabilizzante, capace di accogliere in sé, facendoli convivere, contrasti estremi (Belli, 2021). Del resto, «[…] l’artista ha l’anima dello specchio: L’Ombra più fosca si aggira sul suo capo e lui ne riflette immagini, colori, musica e sublimi parole[21]».
L’Archetipo del Clown malefico
Dagli albori della civiltà, l’uomo è chiamato a gestire gli esiti della proiezione dell’Ombra, intesa come quel meccanismo psicologico, sottostante a qualsiasi forma di relazione, che consente all’individuo di trasferire all’esterno i contenuti inconsci disturbanti. L’oggetto del processo proiettivo è variegato, posto che l’Ombra può proiettarsi sui singoli o su intere popolazioni, su categorie sociali, Paesi o sistemi di pensiero: esemplare il caso di Nazioni che si considerano pacifiste e dispongono dell’arsenale militare più poderoso al mondo (Raggi, 2006). «Si vis pacem, para bellum» recita Vegezio, nel suo Epitoma Rei Militaris del V secolo: motto unanimemente interpretato quale espressione del concetto strategico di deterrenza – la capacità di convincere un potenziale aggressore che le conseguenze dell’atteggiamento di minaccia e del conflitto armato potrebbero oltrepassare i potenziali ricavi (Nomenclatore Militare, 1998) – ben esprime il processo psicologico ad esso sotteso. Di «uomini senz’Ombra[22]» parla Jung, riferendosi a coloro rispetto ai quali il meccanismo proiettivo si è compiutamente realizzato: sono le persone che si definiscono giuste, pie, integerrime, convinte di essere solo ciò che preferiscono di sé e, quando l’Ombra è completamente proiettata, anche le azioni oggettivamente inappropriate vengono giustificate. Così, «se si esagera con il castigare i figli per una mancanza commessa, se si inaspriscono le torture verso gli eretici, se si rendono “civili” gli Indiani d’America contro la loro volontà, se si imbottiscono di Ritalin i bambini irrequieti, è sempre stato detto che è per il loro bene[23]».
Ciononostante, «l’Ombra non è necessariamente malvagia, è soltanto inferiore, primitiva, sconosciuta e nascosta[24]» e di questo sembrano essere ben consapevoli gli Indiani d’America Sioux con i Clown sacri (Heyókȟa) della tradizione mitopoietica, il cui comportamento, contrario alle norme del gruppo, viene ritualizzato. L’Ombra, così liberata ed espressa, viene conosciuta e maneggiata in maniera non insidiosa né traumatica per la comunità, che individua nei Clown gli attori primari del processo di forgiatura dei codici tribali: scevri dai vincoli della società, essi sono in grado di violare liberamente i tabù culturali e criticare i costumi consolidati. Paradossalmente, infrangendo le norme codificate, contribuiscono a definire i confini accettati, le regole e le guide lines per il comportamento etico e morale della comunità (Swann, 1996). Il carattere trasgressivo del personaggio clownesco, questa volta nella sua accezione malevola, è stato enfatizzato dalla produzione cinematografica recente, che ha partorito figure folli e inquietanti, a partire da Joker, nemesi di Batman (Tim Burton, 1989), criminale perfido e imprevedibile, fino al pagliaccio-divoratore di bambini dell’omonima pellicola Clown (Jon Watts, 2014), con un’incursione nella dimensione dei videogiochi di ruolo, dove Kefka Palazzo (Final Fantasy VI, 1994), sociopatico e misantropo dall’aspetto iconico del clown, si trastulla tra l’arte della guerra e l’hobby del gioco con le bambole. Crudele, spietato e disumano stratega militare, è acclamato dalla critica di settore come uno dei più riusciti «antagonisti videoludici[25]».
Che dire di Pennywise, il pagliaccio-assassino protagonista del romanzo It (1986) di Stephen King? Entità pan-dimensionale, capace di manipolare la realtà soggettiva delle proprie vittime assumendo le sembianze delle loro immagini mentali terrifiche, il personaggio incarna «ogni orrore sociale e familiare conosciuto nell’America contemporanea[26]». Secondo il critico Mark Dery, esso presenterebbe forti analogie con il caso di John Wayne Gacy, serial killer statunitense che, per adescare le sue giovani vittime, adottava un Alter Ego chiamato Pogo The Clown (Skal, 2001), sebbene King abbia successivamente dichiarato che l’idea di Pennywise fosse maturata dopo essersi chiesto cosa spaventasse i bambini «più di qualsiasi altra cosa al mondo», concludendo che la risposta fosse «i pagliacci[27]». Quale che sia stata la fonte d’ispirazione del regista, di certo The Clown Killer Gacy, predatore sessuale sadico e pedofilo, con 33 vittime accertate – tutte adolescenti e di sesso maschile – ha contribuito ad alimentare, nell’immaginario collettivo, la paura per il pagliaccio malefico. Soggetto ricorrente della cultura popolare, a differenza del pagliaccio tradizionale, dalle connotazioni comiche e buffe, quello malefico si caratterizza per l’apparenza inquietante e la crudeltà del comportamento, che lo rendono un personaggio frequentemente associato al mondo dell’orrore e a quello dell’umorismo nero. Il celebre racconto di Edgar Allan Poe Hop-Frog (1849), in cui compare un buffone di corte assassino, si ispirerebbe ad un fatto realmente accaduto: un grave incendio, sviluppatosi nel quattordicesimo secolo, durante una festa in maschera regale, in cui numerosi ospiti perirono carbonizzati a causa dei loro costumi altamente infiammabili (Morgan, 2002).
Sebbene l’Archetipo del pagliaccio malefico abbia origini poco chiare, le sue prime apparizioni in epoca moderna risalgono alla produzione letteraria del XIX sec., con la figura clownesca, dalle fattezze inquietanti, tratteggiata da Dickens nel suo romanzo d’esordio, Il Circolo Pickwick (1836). Vero è che il pagliaccio da sempre incarna l’ambivalenza, nella letteratura e nelle arti (Dalla Casa, 2016): «[…] il clown ha rivestito ruoli importanti in tutte le società e culture, e il clown cattivo è parte integrante di questo. Non è possibile separare un clown buono da un clown cattivo più di quanto sia possibile separare un clown dalla sua ombra[28]». L’associazione tra Archetipo e aggressività compare anche nell’espressione musicale in Pagliacci, opera lirica in due atti su libretto e musica di Leoncavallo, rappresentata per la prima volta al Teatro Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892. La composizione, di stampo verista, trarrebbe ispirazione da un fatto di sangue realmente accaduto in un paese del Cosentino, dove il librettista trascorse un breve periodo della propria infanzia: nel caso specifico, un delitto di gelosia giudicato dal padre, magistrato in Calabria (Sansone, 1989).
L’Animus, ovvero l’aggressività femminile nel Mito
Anima e Animus, i due Archetipi antropomorfici primari del pensiero junghiano – rispettivamente l’immagine della donna nella psiche maschile e l’immagine controsessuale nell’inconscio femminile (Jung, 2012) – sono inevitabilmente destinati ad influenzare gli atteggiamenti e le interazioni individuali con il sesso opposto. L’Imago junghiana, nella sua duplice dimensione, è presente anche nell’inconscio individuale, sede delle immagini ereditarie collettive e la necessità di integrazione tra le due polarità è rappresentata, nella tradizione popolare, dalla figura della Sigizia (o coppia divina), sintesi di maschile e femminile, emblema di completamento, unificazione e integrità. Orbene, l’Animus, l’istanza psichica maschile nella donna – quella che, nella sua accezione benevola, incarna coraggio, spirito e creatività – nella sua polarità negativa personifica brutalità, freddezza, ostinazione, «[…] un potere del male, distruttivo per la vita umana. Separa la donna dalla sua femminilità. L’allontana dal calore umano e dalla gentilezza[29]». Secondo questa interpretazione, sarebbe la mancata integrazione dell’Archetipo controsessuale a generare dinamiche conflittuali tra uomo e donna, segnate dalla prepotenza e dall’aggressività.
L’accettazione della propria componente eterosessuale come modalità di realizzazione dell’identità femminile è stata preconizzata dallo stesso Jung (1963) con riferimento alla «[…] donna moderna, che voglia uscire dalla tradizionale dipendenza nei confronti dell’uomo, cioè da un’esistenza in funzione di “altro da sé”, sia a livello individuale, che culturale e sociale [poiché] la donna come “costola di Adamo” è ancora un problema attuale[30]». Si tratta di un processo psichico complesso, che impone la cesura della «complicità tra Animus e Ombra [posto che] una donna deve essere conscia dei suoi lati inferiori [inconsci], e distaccarli e distinguerli dall’Animus, per poter entrare in relazione positiva con esso[31]». L’aggressività femminile è considerata espressione della necessità della psiche di confrontarsi con il proprio «lato oscuro», connesso alla istintualità cieca e alla distruttività – Thanatos, ovvero la «pulsione di morte» freudiana – per raggiungere equilibrio e completezza (Conti & Lombardo, 2013): altrimenti detto, la gestione dell’aggressività (trasgressiva, erotica, trasformativa, fusionale, crudele) dell’Archetipo femminile in rapporto al maschile (Valcarenghi, 2003).
Si pensi al Mito di Inanna, dea sumera dell’amore erotico, dei cicli naturali e della guerra e della sua discesa agli Inferi (Kramer, 1997): il ritorno al Mondo dei Vivi e la spartizione del Regno con il compagno che, nel frattempo, l’aveva ripudiata simboleggiano l’accordo raggiunto nella gestione del potere maschile e femminile all’interno di una sana dialettica di coppia. Al pari di Inanna – incarnazione delle emozioni tipicamente femminili e contrapposte come l’amore, la collera, la sensualità, la spregiudicatezza, il candore, la gioia, il dolore, la generosità, la timidezza e l’esibizionismo (Kramer & Wolkstein, 1983) – l’assiro-babilonese Ištar, derivata dall’omologa dea sumera, coniuga l’aspetto di dea benefica, dispensatrice di amore, pietà e maternità, con quello di dea terrifica, portatrice di guerra e tempeste (Mercadante, 2002).
Nella tradizione mitopoietica, è la figura di Lilith, progenitrice dell’umanità e prima compagna di Adamo, a rappresentare compiutamente l’Archetipo dell’aggressività femminile, ribelle e distruttiva. Nella psicologia junghiana, essa viene equiparata all’Archetipo della Grande Madre, nella sua dimensione ambivalente (Grazioli, 1999). Sostituita dai Rabbini con Eva perché non si assoggettava all’autorità maritale – né avrebbe potuto, posta la sua creazione indipendente, dalla polvere come il consorte, e non già dalla sua costola – manifestava palesi rivendicazioni nei confronti di Adamo, troppo autoritario, violento e prevaricatore, perché nell’atto sessuale «pretendeva di stare sempre sopra di lei[32]». Del resto, «[…] il rapporto sessuale, con la sua numinosità archetipica di “coniunctio oppositorum”, sancisce, come un rito iniziatico, la condizione di appartenenza, di dipendenza, di “sudditanza” della donna nei confronti dell’uomo. Anche nel linguaggio comune è l’uomo che “prende” o “possiede” la donna, e non viceversa[33]». Reietta e costretta a rifugiarsi tra i demoni del deserto, Lilith sussume gli aspetti negativi della femminilità presenti nelle religioni monoteistiche patriarcali, quali adulterio, stregoneria e lussuria. Nell’immaginario popolare ebraico, diventerà il demone notturno che tormenta i nascituri di sesso maschile (Scholem, 1982).
Nello Zeitgeist del Terzo Millennio, la figura di Lilith è straordinariamente presente, permeando la produzione televisiva, fumettistica e videoludica delle medesime caratteristiche presenti nel Mito originario. Basti pensare al personaggio omonimo del serial TV Supernatural (Eric Kripke, 2005) – il primo umano ad essere trasformato in demone da Lucifero e, a detta del creatore della serie, il demone più potente: a segnare il suo status di potere superiore sarebbe la leucoria, ovvero il colore bianco dell’iride – o alla sanguinaria Lilith, progenitrice dei vampiri nella saga fantasy-horror True Blood (Alan Ball, 2008-2014), che si nutre della linfa vitale degli umani, istigandoli all’omicidio dei propri simili. La Lilith nostrana indossa le vesti (poco più rassicuranti) di una cronoagente – una sorta di cronokiller inviata in periodi storici differenti, per rintracciare personaggi-chiave e salvare, così, l’umanità da un futuro di distruzione – nell’omonimo fumetto pluripremiato di Luca Enoch (2008). Anche in questo caso, tuttavia, il binomio Eros/Thanatos di freudiana memoria è velatamente presente, laddove l’eroina sia necessitata a compiere atti moralmente censurabili, quali uccidere vittime innocenti o concedersi sessualmente per raggiungere i suoi obiettivi: condotte foriere di angosce esistenziali per la protagonista, la cui lotta interiore è sapientemente tratteggiata dall’Autore.
Nel videogioco Borderlands (Gearbox, 2009), Lilith è un personaggio «giocabile[34]», capace di entrare in uno stato particolare della materia che le consente di diventare invisibile e avvicinarsi indisturbata al nemico, muovendosi a velocità raddoppiata. L’attivazione/disattivazione del suo potere genera un’esplosione che investe gli avversari, con modalità di attacco perfettamente sovrapponibili a quelle dei suicide bombers reali, a differenza dei quali, tuttavia, l’attentatore non perisce nell’azione ma si rigenera. Meritevoli di interesse al riguardo, le osservazioni di Collins (2008), secondo cui l’uso strategico dell’inganno nell’approccio alla vittima rende il terrorismo suicida la forma di violenza terroristica più efficace e devastante, poiché l’avvicinamento al target inconsapevole contiene il flusso adrenalinico dell’aggressore, evitando di ridurne la lucidità. Personificazione dell’aggressività violenta e distruttiva, Lilith è assai lontana dalla Dea Atena, la vergine guerriera della tradizione ellenica, emblema della forza e del coraggio, del sentimento di giustizia, della saggezza, della lealtà e della benevolenza (Graves, 1955).
Conclusioni
Lungi dall’essere entità relegate nella notte dei tempi, le immagini archetipiche manifestano la loro possente vitalità anche nella società contemporanea, dove antichi miti e nuove simbologie si embricano indissolubilmente. Vero è che le spinte aggressive dell’essere umano trascendono la dimensione spazio-temporale, per tradursi in schemi mentali costanti: risposte comportamentali ed espressive simili a contenuti universalmente condivisi, gli Archetipi junghiani confermano la loro vocazione all’immortalità. La rapida evoluzione della società, scandita dalle nuove tecnologie, non scalfisce il «bagaglio ancestrale» del genere umano, proteiforme nelle manifestazioni ma granitico nei contenuti: dal Mito primordiale della Grande Madre, benefica e terrifica al contempo (Carotenuto, 1971), al Mito del Vampiro, dove Luce e Ombra si rincorrono in un eterno gioco di specchi; dai Clowns malvagi, beffardi e crudeli, fino alle moderne eroine del male, il tema dell’aggressività dimostra di dominare, indiscusso, gli scenari, presenti e passati, dell’immaginario collettivo.
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Già presente nel Paleolitico e nel Neolitico, è rappresentata dalla Dea Madre, adorata fin dai primordi delle organizzazioni umane (Ištar per gli Assiro-babilonesi; Nama per i Sumeri; Iside per gli Egiziani, ecc.). ↑
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Hela (o Hel) nella mitologia norrena è la divinità dei morti, il cui aspetto -un emivolto nero o cadaverico e l’altra metà dai tratti umani- rende ragione del percorso evolutivo della sua figura nel mito. Antica incarnazione della Dea Terra, che nutriva gli affamati offrendo loro ristoro; più tardi diverrà simile a Plutone e il suo regno paragonabile all’Ade greco. ↑
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Criminale statunitense, noto per essere stato il mandante di due fatti sanguinosi tristemente noti nella storia degli Stati Uniti: quello dell’eccidio di Cielo Drive, in cui furono uccisi Sharon Tate e quattro suoi amici (Sanders, 1971) e quello ai danni di Leno LaBianca e di sua moglie (Bugliosi & Gentry, 2006). ↑
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Si tratta del personaggio principale della trama di un’applicazione videoludica. Notoriamente silente, tocca al giocatore reale immaginare cosa egli possa fare, sentire o pensare in determinate situazioni, immergendosi così ulteriormente nel gioco (https://wiki.pokemoncentral.it/Personaggio_giocabile#:~:text=Un%20personaggio%20giocabile%2C%20a%20cui,immergendosi%20cos%C3%AC%20ulteriormente%20nel%20gioco). ↑