Famiglia e condotte giovanili devianti
La costruzione dell’identità
Il bambino, alla nascita, si percepisce come un tutt’uno con la madre, non ha una propria identità; un po’ per volta, attraverso una relazione adeguata, sufficientemente supportiva, non ansiogena, comincia a capire di essere qualcosa di diverso dalla madre, o che la madre è qualcosa di diverso da lui.
Il bambino è legato alla madre, la mamma si allontana e il bambino piange, la mamma ritorna e il bambino si rassicura. Da questa oscillazione, separazione e riunione, il bambino costruisce la consapevolezza di essere un qualcosa di separato dalla mamma e che comunque la mamma è un qualcosa che esiste di per se stessa, indipendentemente dal fatto che la si veda o meno, è la costruzione di quelli che sono gli oggetti interni. La mamma, una cosa esterna, ad un certo punto resta dentro il bambino come oggetto interno, anche se si allontana.
Se non vi è stata la possibilità di introiettare un oggetto interno il distacco crea una voragine, un lutto. Il distacco che non può essere affrontato in maniera corretta può portare, ad esempio, all’idea dell’uccisione di sé ed all’uccisione dell’altro dal quale non ci si sa separare. Se nel distacco non c’è la possibilità di tenere degli oggetti interni validi ecco che si arriva all’acting-out aggressivo, all’omicidio, talora motivato dal suicidio. Problematiche della simbiosi sono alla base di reati tra madri e figli e figli e madri, ma le ritroviamo, ad esempio, nello stalking o in tutti quei reati in cui vengono ammazzati i partner che abbandonano.
Dalla simbiosi neonatale, quella che vede unita madre e bambino, si passa un po’ per volta alla separazione e all’individuazione di sé e dell’altro, visto come un oggetto separato dal sé. Ecco qui che torna il problema della figura paterna o della figura maschile, perché la separazione è difficile per il bambino ma è difficile anche per la mamma e la presenza di una terza figura la rende più semplice sia per l’uno che per l’altra.
All’inizio la simbiosi è fisiologica e necessaria perché la mamma deve mettersi in sintonia con un bambino che non sa ancora esprimere i propri bisogni; da un certo punto in poi diventa un accaparrarsi del bambino e non lasciarlo libero di crescere.
Le problematiche dell’individuazione e della separazione dovrebbero risolversi intorno ai due o tre anni, quando il bambino inizia la scuola dell’infanzia. A quest’età si vedono bambini che hanno problemi di separazione che a scuola fanno delle tragedie immani, perché il fatto di separarsi dalla madre significa avere la certezza di perderla, in quanto non c’è introiettato un oggetto interno sicuro.
Successivamente inizia un periodo di latenza, il bambino va a scuola, cresce sul piano cognitivo sviluppando tutta una serie di interessi. Le problematiche dell’individuazione e della separazione ci sono ancora ma non sono più così importanti, riemergendo, se non sono state risolte, nel periodo adolescenziale. È per questo motivo che, ad esempio, nei figli che uccidono i genitori è possibile andare a ricercare la motivazione del delitto nella problematica di una separazione non risolta.
È nella cronaca quotidiana leggere di ragazzi che si allontanano da casa, fanno piccole fughe, magari tentano il suicidio; questi comportamenti, in genere, sono classificabili come dei tentativi di separazione, di interrompere una relazione simbiotica che non permette di crescere. Alla base di queste dinamiche si trova una madre troppo simbiotica, spesso una famiglia troppo simbiotica, ed il ragazzo risolverà il problema in maniera inadeguata, rispondendo con comportamenti aggressivi nei confronti dei genitori, percepiti come un ostacolo alla crescita.
In alcuni casi questi delitti sono qualificati come reati di tipo edipico, ma in realtà sono assolutamente pre-edipici in quanto il problema è proprio il processo della separazione primaria, il passaggio dalla simbiosi al primo nucleo identificativo. La problematica edipica, invece, è già un problema a tre e perciò più evoluta.
Anche nei reati legati al figlicidio, e più in generale al parricidio, si riscontrano dinamiche di tipo simbiotico: figli che magari per tutta la vita fuggono, scappano dai genitori, ma che in realtà non riescono a separarsi perché dentro di loro non c’è formata un’immagine del genitore abbastanza salda che possa permettergli di allontanarsi.
È per questi motivi che per il bambino una relazione corretta con la madre è determinante per un approccio coerente con la realtà, altrimenti relazioni confuse con la madre determineranno in seguito relazioni confuse anche con la realtà circostante.
Le situazioni di crisi nell’adolescenza
L’adolescenza è spesso vista come un’epoca di crisi. Bisogna subito chiarire che il termine crisi inteso in senso psichiatrico non assume necessariamente un’accezione negativa, ma è una situazione di destabilizzazione che necessita di un rimaneggiamento della propria identità, della propria progettualità e che caratterizza un po’ la vita di tutti noi.
Ci sono moltissimi momenti di crisi che necessitano di questo tipo di riadattamento, pensiamo sicuramente all’adolescenza, ma anche al matrimonio, alla nascita di un figlio, al pensionamento, alla vecchiaia, tutte situazioni che mettono in crisi un’identità precedente, che si accompagnano a condizioni di lutto e di perdita in rapporto alle quali vi è, talora, la necessità di un sostegno, sicuramente e sempre di una riflessione e di un rimaneggiamento.
Nell’adolescenza i ragazzi si trovano ad affrontare un momento di crisi, situazioni di perdita molto gravi. Perdita del proprio corpo di bambino che passa ad un corpo di adulto; perdita del proprio ruolo di bambino; perdita anche un po’ di quella che è la figura dei genitori.
Una riflessione particolare riguardo al passaggio di ruolo merita il significato, ormai quasi del tutto perduto, che riveste il rito di passaggio.
Il rito di passaggio ha sempre caratterizzato tutte le società primitive, ma senza andare troppo indietro nel tempo, fino a qualche anno fa, anche in Italia si trovavano riti di passaggio che segnavano il limite tra il mondo dei bambini e quello degli adulti. Per le ragazze, ad esempio, era un rito di passaggio lasciare i calzettoni per le calze lunghe, oppure, per i ragazzi, lasciare i calzoni corti per indossare quelli lunghi.
Attualmente i riti di passaggio non esistono più, venendo meno quel riconoscimento sociale che permetteva di affrontare il lutto derivante dalla perdita del ruolo. Infatti, tutte le volte che si ha una perdita di ruolo, così come per la perdita di una persona, si ha una situazione di lutto, cioè una perdita che si accompagna a una condizione di tipo depressivo. I riti di passaggio servono proprio per affrontare socialmente il lutto.
La mancanza di un rito di passaggio comporta, per l’adolescente, il trovarsi da solo ad affrontare la perdita di ruolo con le conseguenti situazioni di tipo depressivo. Infatti, spesso, in quest’età, alla base di comportamenti devianti troviamo situazioni depressive gravi che non vengono affrontate attraverso la riflessione ma attraverso la condotta. Il ragazzo, facendo fatica ad acquisire una capacità di mentalizzazione, di riflessione su se stesso e sulla realtà, tende ad agire sul comportamento.
La capacità di mentalizzazione si acquisisce col tempo e alcuni ragazzi hanno delle così gravi difficoltà o vivono in ambienti culturali così poveri che fanno fatica a raggiungere questo stadio della riflessione, reagendo alla rabbia ed alla depressione con la condotta deviante.
La mancanza di riti di passaggio è un problema per i minori ma anche per gli adulti, infatti la crescita del bambino ha come conseguenza l’invecchiamento del genitore. Anche da parte dell’adulto c’è la necessita di affrontare un passaggio di ruolo, un invecchiamento che non fa piacere e che comporta un rimaneggiamento della propria identità, dei propri progetti, della propria vita, della propria immagine di sé.
A volte l’adulto reagisce alla mancanza del rito di passaggio verso la vecchiaia ricorrendo alla chirurgia estetica, portando in alcuni casi ad un ringiovanimento talmente esasperato e ad una profonda differenza tra l’immagine ed il vissuto tanto da creare dei profondi gap relazionali nei confronti dei figli.
Spesso i ragazzi si trovano da soli a gestire il passaggio dall’età infantile all’età adolescenziale, quindi all’età adulta, altre volte hanno la fortuna di usufruire di un gruppo di “pari” variegato e sano, in alcuni casi hanno invece la sfortuna di inserirsi, per caso o per ambiente, in un gruppo di “pari” particolarmente patologico, facendo poi fatica a venire fuori indenni dalle problematiche adolescenziali, tra le quali quelle relative all’incontro con l’altro.
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