Diversamente uguali: ritualità e simbologia del mondo degli ultras
“Hooligans” in Gran Bretagna e Germania, in Francia ed in Italia “Ultras”, in Olanda e Belgio “Siders”, varie definizioni non sempre coniate e volute dagli attori protagonisti, che servono a contraddistinguere i cosiddetti tifosi violenti da quelli pacifici o, quanto meno, non inclini al teppismo da stadio. L’archetipo concettuale che, normalmente, ci riconduce al teppista da stadio ha, spesso, uno stereotipo distorto. Giubbotto imbottito doubleface corto in vita (denominato Bomber); capelli rasati a zero; jeans con risvolto e anfibi sono l’immagine mentale comune; in realtà non è così o per lo meno solo in minima parte. L’etimologia, in questo caso, ci può aiutare ad addentrarci nella questione in maniera efficace e semplice.
Gli Hiulihans erano una turbolenta famiglia irlandese che viveva nei quartieri meridionali londinesi verso il 1890. Divennero talmente famosi per le scorribande e le risse nelle quali furono coinvolti, contro altre famiglie o clan a seguito di grosse ubriacature, che il loro nome passò per varie lingue, con modifiche di pronunce, ad indicare la parola teppista; persino in Russo, dove ha assunto il termine “Huligani”. L’origine della parola “Ultras”, invece, ha una dubbia provenienza. Secondo Roversi la derivazione di questa parola risale alla guerra d’Algeria. Con tale nome erano chiamati i gruppi di terroristi francesi che si opponevano all’indipendenza del Paese Nord Africano.
“Estremisti” e “fuori da qualsiasi schema”, due elementi fondamentalmente caratteristici nella mentalità ultras. Chiusa la parentesi, l’origine concettuale dei due differenti modi di rappresentare l’hooligan e l’ultras, sono rivelatamente indicativi per una sua prima caratterizzazione. Dalle poche righe iniziali si può intuire che i primi possono essere dipinti come: rissosi, dediti ad atti teppistici in conseguenza di massiccio uso di alcool e contraddistinti da un antagonismo di gruppo legato principalmente al clan (trasformatosi in club sportivo). Per quanto concerne gli ultras oltre alle analoghe caratteristiche dei colleghi inglesi va aggiunta una specifica variante che potremmo definire pseudo-ideologica, o più propriamente politico-sociale, che va ben oltre il puro contesto sportivo e domenicale. Se alla considerazione appena indicata (ignorando per un attimo il fatto che l’ultras nostrano è una costola derivante da quello anglosassone) si aggiungono le derivazioni storiche e culturali dei due aspetti si ottiene la “quadratura del cerchio”. Ma oltre alle differenze semantiche e concettuali, esiste un denominatore comune tra i vari ultras che scavalchi gli schieramenti nazionali ed internazionali e che superi le barriere politiche e campanilistiche? Si può affermare che, indipendentemente dalle differenti peculiarità, esiste un identikit pur grossolanamente generico che possa servire da apripista per una successiva e più specifica analisi delimitata ai vari casi? La risposta non può essere che positiva.
La fenomenologia del teppismo da stadio è certamente storia recente, considerando che il suo apparire, per lo meno con dati di rilievo, è notevolmente vicino a noi. Si può affermare che i primi morti, in Inghilterra[1] ed in Italia[2], imputabili ad avvenimenti calcistici risalgono a non più di 30 anni fa. Di conseguenza lo studio del fenomeno stesso è agli inizi e non può fare a meno di supporti sociologici e criminologici antecedenti, legati, quindi, a manifestazioni similari. Secondo George B. Palermo: «Negli anni ‘50 e ’60, l’attenzione dei sociologi e criminologi che studiavano la delinquenza e i crimini violenti, si diresse in modo specifico verso variabili sociologiche come […] gruppi di coetanei, i quartieri e le bande». Proprio in questo periodo Marvin Wolfgang e Franco Ferracuti scrissero un libro nel quale ipotizzarono lo sviluppo di una sottocultura nella quale si richiedesse la forza fisica come soluzione dei conflitti quotidiani. Chiaramente, tale studio era rivolto agli episodi di violenza che, in quel periodo e tuttora, avvenivano nei ghetti metropolitani statunitensi, non legati quindi all’ambiente sportivo.
Una sottocultura, quindi, derivante dall’esperienza afro americana. Nonostante ciò, comunque, tale attenta valutazione è basilare per l’inserimento di un primo tassello del puzzle. Dal Lago, altro sociologo che si è occupato del problema ultras, ha elaborato una teoria che è un amalgama tra quella appena descritta e gli insegnamenti di J. Huxley, approfonditi poi da K. Lorenz, sulla ritualizzazione: «che metteva sullo stesso piano i processi storico culturali che conducono a formazioni dei riti umani ai processi filogenetici che danno luogo a curiose cerimonie presso gli animali». Dal Lago vide attorno al calcio la presenza di una sottocultura con un sistema di simboli, linguaggi, rituali, capace di per sé di promuovere comportamenti specifici.
Cultura del più forte, o sottocultura[3] a seconda dei punti di vista, riti stereotipicamente compassati, estrema considerazione della simbologia e battaglia, apogeo del fenomeno. Elias Canetti, a tal proposito, sostiene: «[…] un uomo che si pone in battaglia sa cosa rischia; se egli non è cosciente di alcuna superiorità rischia al massimo. Chi ha la fortuna di vincere sente crescere le proprie forze e affronta con più ardimento l’avversario successivo […] dopo una serie di vittorie egli acquista ciò che vi è di più prezioso per il combattente: un senso di invulnerabilità e dall’istante in cui l’avrà acquisito oserà cimentarsi in battaglie sempre più pericolose». Bisogna aggiungere che spesso teorie e riflessioni sul tema difettano di una fondamentale caratteristica degli studi induttivi, il riscontro oggettivo. Una teoria, è chiaro, ha necessariamente bisogno di un comparazione concreta e tangibile.
Si sa che l’apprendimento migliore si ha con esempi reali, che possano rendere pratica una deduzione a prescindere dalla sua manifesta logicità. Frequentemente, ad esempio, viene citata in occasioni del genere la ormai celeberrima teoria detta: sindrome del beduino[4] per valutare al meglio il rapporto esistente tra le varie tifoserie. In sintesi, tale teoria afferma dei fondamentali ed elementari concetti. A tal proposito va aperta una ulteriore parentesi. Quasi sempre, nel mondo ultras vengono utilizzati pensieri, opinioni, giudizi, ed idee semplici e paradossalmente logici, indipendentemente dal fatto che questa logicità possa considerarsi condivisibile. Se è vero che la sottocultura è una specificità insostituibile del vivere ultrà è altrettanto vero il fatto che il loro modo di pensare è del tutto genuino, come evidenziato dagli stessi ultras. Ciò deriva dal fatto che per sottostare a certe regole bisogna comprenderle al di là delle differenze etniche, generazionali, politiche ecc.. In poche parole, un’arcaica forma comunicativa, con forti similitudini a quelle regole e a quei riti tipici dei guerreschi popoli antichi dove l’onore era alla base di tutto, e di facile interpretazione. Il paradosso più vistoso, comunque, è che proprio questa sua cristallina semplicità comunicativa e interpretativa spesso, troppo spesso, non viene compresa, inconsapevolmente o meno, da chi dovrebbe fungere da arbitro, le Forze dell’Ordine che frequentemente, e di norma in maniera sproporzionata, si spogliano della loro veste istituzionale per rappresentare una sorta di terzo contendente, ruolo che si è così consapevolmente diffuso da divenirne parte essenziale.
Tornando alla sindrome del beduino sinteticamente afferma che:
- il nemico di un mio amico è un mio nemico
- il nemico di un mio nemico è mio amico
- l’amico di un mio amico è mio amico
- l’amico di un mio nemico è mio nemico
Una volta tanto le parole amico e nemico si equivalgono. Ma tale teoria può essere considerata vera? Fondamentalmente sì, con piccole e intuibili variabili. Un esempio: in una ricerca pubblicata alcuni anni fa dall’Università di Pisa venne fatto riferimento ad una vera e propria mappa del tifo, in particolare delle amicizie e rivalità esistenti tra le varie tifoserie ultras. Addirittura su di un sito in cui venivano riportati in maniera specifica i vari gemellaggi e le correlative rivalità; era stato ipotizzato un probabile terremoto con repentini sconvolgimenti di affinità dovuti a svariate motivazioni, principalmente politiche e di ricambi generazionali. Cosa che puntualmente è avvenuta. In questo caso, così come molti adolescenti rifiutano stili di vita e abitudini dei genitori, i nuovi padroni delle curve non accettano, sempre o quasi mai, ciò che i loro predecessori avevano faticosamente costruito, comprese amicizie e inimicizie. Per arrivare al caso specifico la vecchia curva livornese[5] tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta aveva instaurato un rapporto di amicizia[6] con i tifosi dello Spezia, in comune infatti avevano l’odio profondo per gli ultrà pisani e, conseguentemente, per i genoani, a loro volta vecchi amici dei pisani (amicizia, anche in questo caso, terminata[7]).
La teoria quindi collima in tutte le sue parti, sia nella prima che nella seconda fase. Durante un importante incontro disputatosi a Livorno, i tifosi locali e quelli dello Spezia diedero il via a pesanti scontri all’esterno dello stadio comunale, con feriti tra le forze dell’ordine e numerose denunce a carico di tifosi labronici. Oltre all’effettiva gravità del gesto, ciò che più interessa nel nostro caso sono le motivazioni della controversia. I tifosi livornesi, infatti, accusavano i “colleghi” liguri di intrattenere una profonda amicizia con gli acerrimi nemici varesini[8] palesemente schierati a destra.
Il consumo di alcool tra tifosi
Estrema importanza viene data, in molti paesi europei, all’influenza che droghe ed in particolare l’alcool rivestono nel causare il comportamento violento dei tifosi. Lo studio empirico rivela che: «[…] l’alcol, allentando i controlli inibitori corticali, libera le emozioni che, normalmente, vengono tenute sotto controllo nell’inconscio, emozioni che a volte non sono di natura positiva, bensì di tipo aggressivo».
Questa percezione, seppur in maniera non così propriamente tecnica, è stata da sempre avvertita dagli stessi ultras. Anzi, l’abbondante uso di alcool da parte degli ultras è una pratica spesso utilizzata sia per rompere i freni inibitori sia perché, una volta ubriachi, aumentano il loro livello di sopportazione del dolore. Tale usanza, comunque, è stata in gran parte sostituita dall’arrivo di nuove droghe sintetiche stimolanti, facilmente reperibili a buon mercato, e dall’abbassamento dei costi al dettaglio di droghe tradizionalmente eccitanti quali la cocaina. A dire il vero la prassi del bere molto, prima di incontri a rischio, è rimasta consolidata in gran parte delle tifoserie di sinistra ed in quelle del Nord Italia.
La correlazione tifo violento uso dell’alcool, comunque, è stata attentamente monitorata in Inghilterra visto che i mass media d’Oltremanica imputano proprio all’uso abbondante di alcolici la principale causa della violenza degli hooligans. D’altronde tra la “routh working class”, da cui proviene la stragrande maggioranza degli ultrà anglosassoni, esiste una attempata usanza detta: heavy drinking (bere per ubriacarsi) che è stata causa di numerosissime risse, non solo sportive. Per tale motivo, in quel Paese vennero promulgate delle leggi che vietarono la vendita di alcolici contestualmente ad incontri calcistici, normativa poi adottata dal Parlamento Europeo proprio su pressione degli stessi inglesi e dei tedeschi.
Tali inibizioni, comunque, produssero effetti inattesi. Per prima cosa non vi fu un apprezzabile risultato relativamente al calo degli incidenti, inoltre, l’effetto collaterale generò un aumento dell’uso di droghe cosiddette “leggere”, canapa ed ecstasy, da parte di tifosi all’interno dello stadio. Questo risultato portò gli esperti del settore a rinnegare l’inferenza del rapporto causale tra l’uso di alcol e la violenza sportiva. In realtà questi dati sono in parte ingannevoli in primo luogo perché l’uso dell’alcol non può essere visto come la ragione principale degli scontri, bensì come una concausa, un fattore concomitante quindi ma in determinate circostanze fortemente decisivo, ed in seconda battuta perché i divieti, anche quelli applicati nel nostro territorio, vengono arginati acquistando la materia prima anticipatamente od in maniera furtiva. Basta osservare l’impressionante numero di bottiglie o lattine di birra vuote che vengono di solito recuperate sui mezzi di trasporto degli ultras al loro arrivo per averne una tangibile testimonianza. Si ricorda, a tal proposito, che la disciplina della vendita di alcolici attribuisce una ampia discrezionalità valutativa a Sindaci e Prefetti, che emanano personali e soggettive direttive in merito.
Questo disomogeneo principio valutativo adottato in Italia ha creato non poche problematiche, ciò conseguentemente al relativo criterio interpretativo. È noto che il maggior lavoro operativo durante la fase di filtraggio viene svolto dal personale di rinforzo, vale a dire dei reparti inquadrati dei Carabinieri, della Guardia di Finanza o della Polizia di Stato, che domenicalmente peregrinano da una città all’altra della penisola. Spesso, questi operatori, sono del tutto ignari dei dettami amministrativi sulla somministrazione e la vendita di alcolici vigenti nel territorio ove in quel momento prestano servizio. Può capitare, alla luce di quanto appena detto, che in determinati stadi un operatore di polizia vieti l’accesso a tifosi con bevande alcoliche al seguito quando poi, all’interno della stessa struttura, è consentita la somministrazione di birra; questa a volte inconsapevole presa di posizione appare ad un osservatore obiettivo quanto meno contraddittoria, mentre da un occhio malizioso può essere percepita come un dispetto, un atto provocatorio compiuto da chi ha impedito l’ingresso. Va infine aggiunto che determinate tifoserie europee, come ad esempio la Roligans[9], pur facendo uso ed abuso di alcol mantengono un comportamento sempre corretto e pacifico, spesso festoso e allegro; come già espresso in questo lavoro bisogna sempre fare i conti ed entrare in contrattazione con una caratteristica fondamentale della persona umana: «la sua capacità di autoregolazione e autodeterminazione».
Scritte murali, tatuaggi e simbologia del mondo ultras
È stato appurato che l’adepto di un gruppo antagonista si sveste, nel momento in cui vi prende parte attiva, di molte caratteristiche proprie della sua peculiare individualità. L’erroneo preconcetto diffuso giudica eventi di massa negativi, quali sommosse, dimostrazioni violente, ecc. come avvenimenti causati da un insieme di soggetti socialmente devianti. In realtà, come osservano Renzo Canestrari e Antonio Godino: «il membro di una massa presente può diventare preda di un comportamento che non necessariamente gli è abituale, vale a dire che può essere indotto a commettere azioni in contrasto col suo normale modo di essere individuale». Proprio per tale ragione si è cercato, sino a questo momento, di scorporare gli attori principali di episodi occasionali da quelli protagonisti di avvenimenti deliberatamente voluti. Proseguendo nella lettura del passo, Canestrari e Godino ritengono che determinate perdite o frustrazioni personali possono essere compensate da vissuti esistenziali ed emotivi (di onnipotenza ed invincibilità) sperimentate all’interno di un’azione di massa. Per far sì che questo “particolare piacere” abbia luogo nell’essere membro di una massa attiva vi è la necessità di quattro presupposti generali:
- deve crearsi una situazione relazionale di massa, sia attraverso la presenza sollecita di un capo che di una massa antagonista;
- i contatti fisici, come la costituzione di una catena umana, rinforzano l’effetto della massa presente, favorendo un processo di fusione;
- le emozioni devono essere portate ad un’acme eccitativa, per esempio con cori o canti di marcia, o slogan ritmati;
- la determinazione cognitiva dell’obiettivo comune deve essere veicolata da formule semplici (come le sollecitazioni demagogiche) o da simboli ben identificabili (come bandiere o stemmi o uniformi) che permettano di riconoscere e rappresentare con evidenza gli obiettivi o di valorizzare l’avversario.
Questi simboli rappresentativi sono, quindi, un veicolo di compattezza della compagine. Non a caso si è diffusamente parlato dei vessilli di gruppo e dell’estrema importanza della territorialità. Ma come può essere avvertita questa ripartizione del territorio, o più precisamente come si riesce a riconoscere la distribuzione spaziale, la zona of limit. La lottizzazione territoriale delle compagini che hanno l’esclusività del tifo locale, poiché esiste una sola squadra rappresentativa cittadina, è certamente più semplice da comprendere, normalmente è la zona antistante la curva o il settore dello stadio dove stazionano prima dei vari incontri. Queste particolari estensioni spaziali vengono abbondantemente marcate con scritte, simboli, immagini e disegni del gruppo che li rappresenta. Sono a volte veri e propri graffiti che richiamano alla mente le usanze delle bande metropolitane statunitensi, in particolare alla marcatura dei luoghi ove questi si ritrovano, che in gergo prende il nome di “turf”: territorio, appunto. In questo caso invadere quelle zone e/o imbrattarle con segni o graffiti alieni è ritenuta una dichiarazione di guerra. Man mano che ci si avvicina al centro dei rispettivi territori ultrà aumenta il numero delle scritte e dei segni identificativi del gruppo, come dimostrano le due foto sottostanti.
A questo punto una divagazione sugli studi di Havelock Ellis è d’obbligo; il ricercatore in merito ai graffiti sui muri delle celle eseguiti dai detenuti, scrisse: «ogni volta che l’uomo viene separato dai suoi simili, per un qualsiasi periodo di tempo, prova il bisogno di esprimersi attraverso l’arte o la letteratura […] il bambino ama parlare a se stesso […] il criminale fa tacere i suoi pensieri più intimi è per se stesso, solo per se stesso, che scrive quello che non può o che non osa dire i suoi desideri […] il suo giudizio sulla vita, sono tutti elementi registrati nelle iscrizioni di questa prigione, sui muri imbiancati». Si è visto, quindi, che le scritte murali oltre a servire per segnare i confini spaziali indicano anche quelli che sono gli stati emotivi del momento, l’odio verso un particolare nemico, l’esaltazione di una azione coraggiosa appena compiuta ecc.
Ma al di là dell’aspetto puramente comunicativo, ciò che più interessa è che molte volte alcuni fenomeni violenti di massa, commessi in ambito calcistico, sono preceduti e/o seguiti dall’aumento di scritte di minaccia o rivendicative sui muri cittadini. Non a caso, a seguito di azioni repressive delle Forze dell’Ordine o di incidenti tra tifoserie aumentano a dismisura le scritte contro l’uno o l’altro nemico, scritte che compaiono anche in più parti della città e sovente anticipano persino quelli che potranno essere i futuri scenari. Il monitoraggio di questi particolari messaggi, seguito da una attenta valutazione interpretativa sui contenuti, offre un sostanziale contributo al lavoro informativo per la prevenzione o repressione dei reati commessi in ambito calcistico.
Tatuaggi
Al pari dei graffiti i tatuaggi sono un importante mezzo di identificazione di gruppo. Questo rituale nel mondo ultras ha recentemente preso maggiormente piede in concomitanza con la più ampia diffusione di massa dell’usanza del “corpo tatuato”, diventato al giorno d’oggi una moda vera e propria.
Come sostiene G.B. Palermo, che prende unicamente in esame il comportamento delle bande metropolitane, il tatuaggio «rappresenta, per le bande, la convinzione e i messaggi dei loro membri. La maggioranza degli appartenenti avrà il nome della banda e dell’affiliazione tatuata sulle braccia, sul petto o sulla schiena».
La proprietà indelebile del tatuaggio fa presupporre che colui che lo pratica sia fortemente convinto delle proprie idee, che, in definitiva, sposi per sempre la causa per la quale ha compiuto il gesto, nel nostro caso di attaccamento verso i colori della propria squadra[10].
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[1] Il primo decesso accertato in seguito ad un incontro di calcio in Inghilterra risale all’agosto del 1974 quando un tifoso del Bolton venne accoltellato a morte
[2] 1979 Vincenzo Paparelli viene colpito a morte, all’interno dello stadio Olimpico in Roma, da un razzo bengala lanciato dalla curva romanista durante il derby capitolino
[3] Con il termine di sottocultura ci si riferisce anche ad un processo di socializzazione che coinvolge giovani della stessa generazione, che condividono insieme idee e valori, giovani che hanno uno stesso modo di pensare di gesticolare un comune linguaggio e stesso modo di vestire e nel caso degli hooligans anche uno stesso modo di vivere.
[4] Definizione data da Elias – Dunning
[5] Come si vedrà meglio in seguito nel 1999 sono entrate prepotentemente e in maniera inequivocabile a comando della locale curva le BAL 99 (Brigate Autonome Livornesi), il 99 sta per l’anno di fondazione
[6] Nel gergo il gemellaggio è ben diverso dall’amicizia
[7] Gemellaggio rotto nell’anno 2002
[8] Gruppo denominato Blood Honour (sangue e onore) tra i cui adepti vi sono numerosi esponenti di forza nuova
[9] Derivazione dal termine roling (tranquillo) usato in antitesi all’hooligan per distinguere il tifo violento da quello pacifico
[10] Gruppo di livornesi in trasferta a Roma. Al centro dell’immagine viene riportato il simbolo del gruppo ultras BAL e le frecce indicano il particolare, ingrandito, del simbolo in questione tatuato sulle varie braccia – foto archivio personale.