Baby squillo: vittime innocenti?
Negli ultimi mesi, a partire dal cosiddetto caso delle “baby squillo dei Parioli”, molto si è dibattuto sul fenomeno della prostituzione minorile e altri casi sono emersi in diverse città del nostro Paese.
Le opinioni massmediologiche, nel tentativo di dare spiegazioni e riflettere sulle motivazioni di comportamenti sessualmente “devianti” delle adolescenti coinvolte, hanno sostanzialmente proposto alcune posizioni contrapposte: da una parte chi ha sostenuto che le ragazze sono incolpevoli, non capaci di rendersi conto di quello che facevano perché “bambine”; dall’altra chi ha spostato la completa responsabilità sugli adulti coinvolti, sia sfruttatori che clienti, in entrambi i casi uomini senza scrupoli che si sono approfittati della vulnerabilità delle ragazze; o ancora chi ha assunto una terza posizione, volta alla deriva della nostra società e delle nostre famiglie, non in grado di prendersi cura dei propri figli adolescenti.
A fronte di tali posizioni che confondono e non permettono un sereno dibattito sulla questione e soprattutto sugli interventi a tutela delle adolescenti coinvolte, è fondamentale in quadrare il problema di cui stiamo trattando.
La prostituzione minorile è un fenomeno variegato e complesso, di cui, tra l‘altro, nel nostro Paese, manca una stima univoca.
Essa certamente, in primo luogo, si sviluppa a partire da una situazione di tratta a fini di sfruttamento sessuale. In altri termini, quasi tutte le organizzazioni criminali dedite alla “tratta” e alla prostituzione, coinvolgono anche minorenni.
In secondo luogo, forte è la presenza della prostituzione minorile maschile, soprattutto nelle grandi città e non sempre legata a organizzazioni criminali.
Vi è anche una trance di prostituzione minorile che trova nel bacino dei cosiddetti “minori non accompagnati” un terreno fertile vista la loro vulnerabilità, ma anche in questo casi si tratta di prostituzione da strada, prevalentemente maschile e quasi mai legata a organizzazioni criminali.
Nel caso, invece, di cui si dibatte da mesi nei diversi contesti divulgativi, quali programmi televisivi e giornali, ovvero delle cosiddette “baby squillo”, è possibile evidenziare alcune specifiche caratteristiche criminologiche:
- in genere non si tratta di prostituzione da strada, ma piuttosto gli incontri vengono organizzati in appartamenti presi in affitto dagli sfruttatori, o comunque da loro messi a disposizione, e spesso in quartieri “bene” delle grandi città;
- in genere non vi sono organizzazioni criminali propriamente dette che gestiscono tale “commercio”, ma adulti singoli che si occupano di tutti gli aspetti gestionali come, per esempio, cercare i clienti e definire l’agenda degli appuntamenti, il tariffario e la propria percentuale, ecc. In realtà in alcuni situazioni venute alla ribalta dalla cronaca, è emerso come alcune minorenni coinvolte tenevano direttamente i contatti con i clienti, senza intermediari;
- le adolescenti, per i casi allo stato noti, iniziano la loro “carriera” accettando proposte esplicite in contesti quali locali notturni, attraverso il “passaparola” o social network, ma anche inserendo la loro disponibilità in specifiche “bacheche on line” di incontri;
- i clienti delle “baby squillo”, in riferimento alle loro caratteristiche socioculturali ed economiche, sono trasversali alle diverse classi, ma più spesso appartenenti a quelle medio-alte visto il costo della prestazione; spesso sono disponibili ad una sorta di “trasferta del sesso”: le loro città di provenienza possono essere diverse da quelle invece in cui le minorenni vivono. Prevalentemente si tratta di adulti che non presentano disturbi di personalità né possano considerarsi dei pedofili da un punto di vista clinico; hanno loro famiglie e quindi sono genitori, in certi casi, di figli coetanei delle minorenni di cui abusano. In altri termini, si tratta in genere di uomini che hanno apparentemente un’adeguata vita familiare, sociale e professionale. La dimensione psicologica prevalente in questi uomini è il narcisismo, agito attraverso dinamiche di potere che hanno come oggetto un soggetto vulnerabile come un’adolescente, che “si compra”, tra l’altro, facilmente. L’esercizio, cioè, del potere in senso ampio, in questi uomini trova in tali contesti facile realizzazione.
In questo lavoro ci occupiamo, quindi, di questa sempre più dilagante, seppur ancora troppo sommersa, realtà del complesso mondo della prostituzione minorile delle cosiddette “baby squillo” con le caratteristiche di cui sopra.
Lo scopo è quello di comprendere le ragioni che inducono una minorenne a dare una iniziale disponibilità a tali atti e a mantenerla nel corso del tempo.
Si tratta, per meglio inquadrare tale questione, di assumere una prospettiva complessa, ovvero quella delle “vittima partecipe” (Gulotta, 2002; Scali, Volpini, 1999; 2000): un soggetto che certamente subisce reati e in questo caso reati di tipo sessuale, che viene sfruttata a fini sessuali ma che, in qualche modo, partecipa alla realizzazione degli stessi.
Elementi di comprensione
Per comprendere le motivazioni psicologiche che caratterizzano le adolescenti coinvolte in questi casi, vanno richiamati alcuni aspetti: individuali delle adolescenti, relazionali tra le adolescenti coinvolte ma anche tra le adolescenti e gli sfruttatori e tra le adolescenti e i clienti, sociali tra le adolescenti e il gruppo dei pari e, infine, familiari.
A livello individuale in generale vanno considerate quali siano le regole e le norme che l’adolescente utilizza per definire i diritti e i doveri che attribuiscono a sé e agli altri.
La capacità di agire secondo tali regole è il risultato finale di un lungo processo che avviene lungo la crescita e che trova nell’adolescenza una sua fase significativa.
In altri termini, la “coscienza normativa” si forma processualmente e richiede in adolescenza una sua rinegoziazione, che può comportare dei rischi quando si incontrano contesti devianti che la rende ulteriormente labile nel soggetto.
Inoltre, sempre a livello psicologico individuale di queste ragazze coinvolte nei casi delle cosiddette “baby squillo”, va preso in considerazione il costrutto della responsabilità. In generale, e in particolare in adolescenza, essa non è una caratteristica stabile della personalità; piuttosto essa va intesa come la capacità di rispondere delle proprie azioni, assumendone i diversi significati a seconda dei contesti e delle relazioni nelle quali quelle azioni sono commesse. Una responsabilità, quindi, situazionale, contestuale, che può essere definita solo in funzione dei diversi contesti culturali, sociali e relazionali, in cui le azioni, anche quelle devianti, si dispiegano (De Leo, 1996).
La responsabilità psicologica, nel tipo specifico di reati sessuali in cui le vittime partecipano alla loro realizzazione, viene neutralizzata attraverso meccanismi di disimpegno morale (Bandura,1986; 2000). Per esempio, a tal proposito spesso le informazioni su questi casi hanno evidenziato come le ragazze tendevano a giustificare questi loro comportamenti nei termini del cosiddetto confronto vantaggioso:“mica è come spacciare”.
Tali meccanismi di disimpegno morale si attivano sia situazionalmente, cioè durante la sua realizzazione, sia nella sua reiterazione, come costrutto cognitivo che con il passare del tempo assume un’importanza sempre più stabile nel soggetto. Questi meccanismi operano sulla ricostruzione cognitiva delle condotte riprovevoli trasformandole in condotte psicologicamente accettabili. Si tratta di fattori cognitivi che fortemente contribuiscono a che le adolescenti, “vittime partecipi” di tali reati, usano per “normalizzare” ciò a cui si prestano, e che consentono dunque di mantenere in essere anche per molto tempo in tale condizione.
Per ciò che si apprende dai casi emersi dalla cronaca recente, le minorenni coinvolte partecipavano a tali pratiche in virtù del connubio tra disponibilità delle situazioni e disponibilità delle ragazze ad accettarle. Una volta agita/subita l’”iniziazione”, le ragazze sperimentavano che, in maniera “facile”e veloce, vi era l’ottenimento di determinati risultati: soldi, ricariche telefoniche, accessori griffati, droga gratis, ecc.
Ma perché continuare nell’esercizio di tali azioni?
A tal proposito vi sono almeno due fattori a questo proposito da considerare. Uno è che il soggetto proprio attraverso la partecipazione a tali atti devianti, sperimenta comunque, abilità e competenze utili a comporre un’immagine di sé come capace, in grado di portare a termine con successo i corsi d’azione anticipati; in altri termini, seppur in maniera disfunzionale, la “vittima partecipe” agisce attraverso tali atti dimensioni comunicative di sé, delle sue relazioni significative, del rapporto con i pari. A quest’ultimo proposito, infatti, va sottolineato come essere veicolate in tali dimensioni devianti abbia consentito alle giovani di vedersi in un ruolo familiare diverso da quello che sarebbe fisiologico: certamente compensativo di un collasso della funzione genitoriale, ma pur sempre significativo. Inoltre, spesso, almeno dalle informazioni divulgate dai mezzi d’informazione, i “prodotti” delle loro attività hanno permesso di sentirsi alla pari all’interno di gruppo di coetanei, magari di diversa possibilità economica ed estrazione sociale.
L’altro fattore è relativo al disimpegno morale, di cui si diceva: il suo esercizio permette all’individuo di trasgredire, attraverso forme di autoesonero morale e psicologico; la ripetizione del disimpegno può costituire un potente strumento cognitivo, affettivo e motivazionale per favorire scelte d’azione altrimenti censurabili.
Un modello di intervento
Le ragazze coinvolte nelle situazioni descritte, come detto, vanno considerate certamente vittime ma anche con alcuni livelli di partecipazione alla commissione dei reati. Quest’aspetto è da considerarsi centrale negli interventi psicologico-sociali nei loro confronti. Esse, infatti, se trovano nei loro interlocutori istituzionali degli adulti che tendono a considerarle solo vittime passive ed “innocenti” tenderanno a veder scotomizzato una parte psicologica significativa delle loro motivazioni a rimanere incastrate in questo tipo di situazioni.
Certo si tratta di adolescenti che sono state utilizzate da adulti, sia i clienti sia gli sfruttatori, ma un intervento clinico se deve essere trasformativo, evolutivo, di rielaborazione delle esperienze non può non interrogarsi sui “vantaggi” psico-relazionali che tali situazioni hanno dato ad un adolescente, come sopra evidenziato (Scali, Volpini, 1999; 2000). Ciò al fine di comprendere gli elementi di vulnerabilità che possono aver contribuito ad essere “vittime partecipi” e, quindi, al fine di prevenire che in futuro possano trovarsi in situazioni di debolezza simili.
È importante avere una visione della vittima attiva, che si autodetermina, anche se soggetto in età evolutiva, portatrice di risorse relazionali, pur senza negare la sofferenza, il turbamento, il disagio vissuto in quanto oggetto di atti delittuosi (Scali, Volpini, 1999; 2000). Ciò ancora di più quando ad essere vittima di un reato è un adolescente, poiché va considerato che si tratta di una fase del ciclo vitale in cui ridefinire in positivo le esperienze consente di superare etichettamenti che circolarmente influenzano sul processo di costruzione della propria identità.
Due sono gli obiettivi principali del trattamento con queste tipologie di “vittime partecipi”: uno è quello di favorire una maggiore consapevolezza e parti di sé che hanno avuto un ruolo nella dinamica di reato, attraverso ed in funzione di un’acquisizione di maggiore responsabilità psicologica rispetto a sé e al proprio benessere. L’altro è quello, come detto, della prevenzione del rischio di ulteriori episodi di vittimizzazione in futuro.
Pertanto tali vittime vanno sostenute nel faticoso e doloroso processo di analisi di quali parti di sé hanno avuto un ruolo prevalente, nonché nell’attribuzione degli effetti secondari del reato subito. L’attenzione è anche su quelle modalità comunicative e relazionali agite nell’azione reato “omologhe” a quelle apprese in altri contesti significativi. Inoltre, un ulteriore obiettivo è quello di ridefinire i significati che la vittima attribuisce al reato subito e le sue rappresentazioni sia dei clienti che degli sfruttatori. Le conseguenze di tali situazioni in cui da una parte si è vittime ma dall’altra si partecipa al reati possono produrre reazioni emotive rilevanti che a loro volta condizionano il proprio abituale stile di vita.
Lavorando su questi aspetti si vuole promuovere nella vittima un processo di promozione della “resilienza” , attraverso cui si senta più in grado di difendersi, di proteggersi, ecc; in questo modo è possibile incrementare la propria autoefficacia percepita (Bandura, 1996), ossia la capacità di sentirsi in grado di riuscire ad agire attivamente nella dinamica di reato in termini di maggiore possibilità di anticipazione mentale degli effetti delle proprie interazioni e quindi di modulazione dei propri comportamenti.
In questo senso sollecitare nella vittima l’assunzione di responsabilità rispetto a se stessa non significa colpevolizzarla, al contrario l’intento è quello di evitare il rischio di stabilizzazione, cioè che essa possa percepirsi come vittima passiva, impotente e incapace. Considerare la vittima di questa tipologia di situazioni solo come elemento passivo ed “innocente” implica il rischio di veder semplificata la complessa dimensione motivazionale psicologico-individuale ma anche familiare e sociale della sua “partecipazione” agli abusi subiti.
Più specificatamente le dimensioni cognitive che vanno sollecitate con adolescenti coinvolte in queste situazioni, sono quelle che sostanziano la cosiddetta “proattività della mente” (Bandura, 1986), ovvero nel potenziamento di competenze quali:
- la capacità di simbolizzare: ovvero la capacità di trasformare le esperienze in simboli in modo che si formino i modelli interni che, applicati alle situazioni successive, permettono di dare significato e continuità al rapporto tra l’individuo e le sue esperienze;
- la capacità di anticipazione: ovvero la capacità di anticipare mentalmente gli eventi e le loro conseguenze per muoversi nella realtà;
- la capacità di apprendimento per imitazione: osservando le azioni altrui si possono aumentare le proprie competenze e quindi si amplia il ventaglio di comportamenti possibili;
- la capacità di autoriflessione: la capacità di osservarsi costantemente e analizzarsi come persona ma anche le proprie esperienze e i propri processi di pensiero;
- la capacità di autoregolazione: la capacità di orientare il proprio comportamento in funzione di obiettivi e standard personali e delle circostanze ambientali (De Leo, Scali, 2002).
Sempre a livello cognitivo, andrebbero promossi interventi di potenziamento di un buon livello di autoefficacia percepita e di motivazioni normative personali e relazionali per ristrutturare gli eventuali meccanismi di disimpegno morale (Bandura, 1986).
Inoltre è importante sollecitare nelle minorenni atteggiamenti riflessivi ovvero ripercorrere il senso dei propri comportamenti, stimolandole alla strutturazione di un pensiero anticipatorio rispetto alle conseguenze delle diverse scelte comportamentali possibili. Ma ancora, sviluppare l’orientamento a ipotizzare: la scelta operata in passato è una delle possibili alternative, la giovane si può allenare ad ipotizzare quali altre alternative sarebbero state possibili e non sono state considerate, e quali ancora sono possibili, concretamente realizzabili.
Un’altra dimensione da potenziare è quella di promuovere sistemi autoregolativi, laddove «Per mediazione autoregolativa intendiamo il modo in cui le condizioni (psicologiche, sociali, ambientali, familiari) di vita della persona vengono percepite e utilizzate dalla persona stessa e dai suoi principali contesti di apprendimento e di interazione; gli strumenti che persone e contesti hanno a disposizione per affrontare e direzionare, in senso attivo, quelle condizioni» (De Leo, Patrizi, 2002, p. 88).
I meccanismi autoregolativi a livello individuale da analizzare, sollecitare e potenziare sono:
- le ragioni e le regole che la vittima si dà e segue quando agisce in senso deviante, i significati che attribuisce al suo agire;
- le intenzioni e le mete che orientano, dirigono, accompagnano i suoi comportamenti devianti;
- le convinzioni sociali cognitive della vittima che rivestono particolare importanza per la spiegazione dei propri comportamenti, quali le convinzioni di autoefficacia e le strategie di disimpegno morale;
- le competenze cognitive, relazionali, emotive, comunicative, sociali della vittima al fine di proteggersi nell’affrontare le condizioni di vita e i rischi di essere coinvolta in futuro in situazioni simili.
Da un punto di vista strumentale possono essere utili i resoconti e le narrazioni come mappe sia della storia delle ragazze sia dei reati subiti. È, infatti, attraverso l’analisi di tali resoconti che è possibile rintracciare i significati dei loro sistemi di relazione, i significati di azione, di attribuzione di responsabilità, il sistema di regole introiettato e agito, ecc. (Harré, Secord, 1972)
In particolare può essere utile considerare i seguenti aspetti:
- la storia della persona, il suo sviluppo psicologico, le sue relazioni, i suoi contesti di vita, le sue esperienze, il suo stile prevalente di comportamento. In particolare vanno evidenziati tutti gli aspetti che possono configurarsi come condizioni di rischio e quelli che rappresentano possibili fattori protettivi. L’obiettivo è di rintracciare le tipicità di quella storia per comprendere i significati che la caratterizzano;
- gli incidenti critici della vita, quelli che hanno segnato i momenti di difficoltà, in cui l’individuo ha percepito di non avere risorse sufficienti per affrontare le situazioni incontrate. L’obiettivo e di comprendere la percezione che la persona ha strutturato delle situazioni difficili per sé, rapportate alle risorse che riconosce di avere;
- l’incontro con la devianza a sfondo sessuale e come questa abbia potuto rappresentare per la persona una possibile soluzione. L’obiettivo è di comprendere a quali esigenze, prevalentemente, assolve la scelta di parteciparvi, e quali sono i picchi del rischio;
- come la possibilità della devianza agita/subita viene mantenuta attiva. L’obiettivo è di definire il posto che essa occupa nella vita della persona e in che modo la persona stessa di disimpegna dalle aspettative sociali e dalle regole di comportamento;
- che cosa ha comunicato la persona attraverso il partecipare a quelle azioni reato;
- come, nel tempo, si è strutturato il permanere in quelle situazioni.
Bibliografia
Bandura A. (1986), Social Foundations of Thought and Action: A Social Cognitive Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs (NJ).
Bandura A. (2000), Sviluppo sociale e cognitivo secondo una prospettiva “agentica”, in Caprara G. V., Fonzi A. (a cura di), L’età sospesa, Giunti, Firenze.
Caprara G. V., Fonzi A. (2000) (a cura di), L’età sospesa, Giunti, Firenze.
De Leo G., (1996), Psicologia della responsabilità, La Terza, Roma-Bari.
De Leo G. Patrizi, P. (2002), Psicologia della devianza, Carocci, Roma.
De Leo G., Scali M., (2002) La prevenzione della violenza negli adolescenti, in Fuligni C., Romito P. (a cura di), Il counseling per adolescenti. Prevenzione, intervento e valutazione, McGraw-Hill, Milano.
Gulotta G. (2002), La vittimizzazione e le investigazioni, in Picozzi M., Zappalà A. (a cura di), Criminal Profiling, McGraw-Hill, Milano.
Harré R., Secord P. (1972), La spiegazione del comportamento sociale, Tr.it, Il Mulino, Bologna 1977.
Scali M., Volpini L. (1999), Laresponsabilità come risorsa nell’intervento clinico con la vittima di reato, in Gulotta G., Zettin M. (a cura di), Psicologia giuridica e responsabilità.
Scali M., Volpini L. (2000), Ipotesi di intervento clinico con le vittime di reato, in Terapia Familiare, n.64.