Approccio psico-socio-antropologico alla scomparsa di persona
Posta la natura integrata dei meccanismi mentali che modulano il funzionamento umano, l’autoefficacia percepita nel controllo degli stressors ambientali condizionerebbe, parimenti, i processi affettivi e quelli motivazionali, dal momento che la maggior parte della motivazione umana è generata cognitivamente. Precisamente, la percepita incapacità di gestione efficace alimenterebbe distorsioni cognitive nell’elaborazione dei potenziali pericoli, amplificandone la gravità e facilitando l’insorgere di pensieri angoscianti in merito ad essi (Bandura, 1996). Il peggioramento del livello di funzionamento individuale, conseguente a modalità di pensiero così problematiche – ipervigilanza associata a c.d. sensibilizzazione negativa, ossia sviluppo di un’eccessiva tendenza alla ricerca dei potenziali pericoli insiti nell’ambiente (Jerusalem & Mittag, 1996) –, sarebbe confermato anche da studi non recenti (Lazarus & Folkman, 1984; Meichenbaum, 1977; Sarason, 1975). Pertanto, le dinamiche di adattamento all’ambiente sarebbero fortemente influenzate dalle risorse personali, in termini di percepita capacità di trasformare cognitivamente situazioni minacciose in situazioni inoffensive (Sanderson et al., 1989). Siffatte dinamiche richiamano il processo di coping centrato sulle emozioni (Lazarus & Folkman, 1984), in particolare quello relativo alle c.d. strategie cognitive adattive, che comportano una ri-valutazione delle situazioni stressanti[16] (Moos, 1988). Orbene, la maestria nell’adozione di tali strategie dipende, in larga misura, da variabili soggettive, prima tra tutte la capacità di autocontrollo individuale (Atkinson & Hilgard, 2006). A sostegno di tale assunto, militerebbe la frequente insorgenza di quadri ansiosi e depressivi nei soggetti con un debole senso di efficacia, riconducibile all’inibizione del controllo sulle ruminazioni mentali e sui pensieri disturbanti, esacerbata dall’inserimento in contesti ambientali pericolosi e difficili (Bandura, 1996). In tali casi, la principale fonte di “distress” non sarebbe rappresentata dalla frequenza dei pensieri disturbanti, bensì dalla percepita incapacità del soggetto di interromperne il flusso (Kent & Gibbons, 1987; Salkovskis & Harrison, 1984). Viceversa, un adeguato senso di efficacia nel controllo del pensiero, associato a convinzioni di efficacia nella gestione attiva della situazione stressante, si è rivelato funzionale alla riduzione dei livelli ansiogeni e del comportamento evitante (Ozer & Bandura, 1990).
Sul piano motivazionale, anche la funzione motivante delle aspettative di risultato – vale a dire l’attesa che una data sequenza di comportamenti produca scenari futuri dotati di valenza soggettiva – appare governata dalle convinzioni di efficacia percepita (Bandura, 1976). Ciò significa che, nel ventaglio potenzialmente illimitato delle alternative di azione, il soggetto difficilmente tenderà a selezionare quelle che giudica oltre le proprie capacità (Maslow, 2006). Pertanto, la definizione degli obiettivi personali, e la pianificazione della sequenza di azioni necessarie a perseguirli, non può prescindere dalla valutazione anticipata delle prestazioni soggettive: com’è stato ampiamente documentato, infatti, un debole senso di autoefficacia compromette l’impegno necessario al conseguimento dell’obiettivo, stimolando condotte rinunciatarie e comportamenti evitanti di fronte a ostacoli e insuccessi (Bandura, 1996). Cantor e Markus, teorici cognitivi della motivazione, definiscono quest’ultima il prodotto della conoscenza di sé, che include la consapevolezza delle proprie emozioni e le loro conseguenze in termini motivazionali. Detta impostazione fa perno sulla nozione di “Sé operante”, inteso come una costruzione dinamica e mutevole del Sé – all’interno della quale confluiscono i “Sé passati” (chi siamo stati) e i “Sé futuri” (chi vogliamo e non vogliamo essere) – suscettibile di cambiamenti in ragione dei differenti contesti di riferimento[17]: «il Sé operante di qualcuno è pertanto un sottoinsieme dell’universo delle possibili idee di sé che possono verificarsi in una sola volta – è il sottoinsieme disponibile al pensiero cosciente della persona in un particolare momento, ed è in parte determinato dalla memoria e dalle aspettative, e in parte dalla situazione immediata. Tali caratteristiche del Sé operante spiegano come si possano avere motivi sia stabili sia mutevoli, e come i motivi possano essere conflittuali o dissonanti» (LeDoux, 2002, 355). Ritenuto elemento costitutivo primario dell’apparato mentale, il “Sé operante” influenzerebbe i processi percettivi e attentivi, il pensiero, le funzioni mnestiche di immagazzinamento e di recupero dell’informazione, fino ad orientare le funzioni esecutive. Poiché ogni esperienza cosciente sarebbe caratterizzata dalla relazione tra l’oggetto dell’esperienza e il senso del Sé personale, il c.d. Sé operante contribuirebbe al processo decisionale e al controllo del comportamento (LeDoux, 2002).
L’impostazione così delineata può essere inscritta nell’ambito della psicologia topologica di Lewin (1961), la quale – coerentemente con le istanze gestaltiche che privilegiano la percezione soggettiva della realtà e del mondo quale metodo di indagine dei processi psichici – «ambisce alla costruzione di una teoria capace di rendere ragione della realtà psichica come sistema dinamico comprensivo della persona e dell’ambiente, risultante dal concorso di varie forze, suscettibile di continue trasformazioni e tendente costantemente verso un equilibrio» (Caprara & Gennaro, 1994, 400). In accordo con il costrutto di “campo[18]” lewiniano, che pone l’accento sulla costante interazione tra l’oggetto e l’ambiente in cui esso è inserito in un momento dato, la dinamica dei processi mentali «deve essere sempre derivata dalla relazione fra l’individuo concreto e la situazione concreta e, nella misura in cui tali processi riguardano forze di origine interiore, dalle mutue relazioni fra i vari sistemi funzionali che compongono l’individuo» (Lewin, 1965, 36). Ciò posto, la condotta sarebbe contestualmente determinata da tutti gli elementi presenti al “campo” psicologico dell’individuo, inteso come rappresentazione soggettiva degli eventi esterni – quello che è stato propriamente definito «ambiente interiorizzato» (Caprara & Gennaro, 1994, 406) – in ossequio al c.d. principio di contemporaneità[19].
Sulla scorta della teoria dinamica lewiniana, se il comportamento è funzione delle relazioni intercorrenti tra lo stato momentaneo della persona e la struttura del suo ambiente psicologico (Balloni, 2004), confinato all’interno di un «sistema di tensioni» (Caprara & Gennaro, 1994, 403) costantemente orientato all’equilibrio, l’allontanamento volontario potrebbe avere luogo laddove l’insieme delle condizioni esterne, così come percepite e dotate di significato dal soggetto, ne comprometta severamente l’omeostasi psichica[20], stimolando l’emissione di risposte comportamentali tendenti a ristabilirla. L’acting out potrebbe, dunque, essere interpretato come tentativo di evasione dallo spazio vitale[21] – un’opzione di svincolo da situazioni esistenziali fallimentari (rectius, percepite come), sia sul piano individuale sia su quello di un fattivo inserimento socio-relazionale della persona – tendente alla proiezione verso un “campo” a valenza positiva[22]. In tal senso, il contesto all’interno del quale matura la scomparsa rappresenterebbe una sorta di continuum rispetto all’habitat interiorizzato della persona, quell’«ambiente del comportamento» che consente un «adattamento reciproco fra mondo e individuo (nel quale) acquista valore la “percezione”, cioè l’attualità immediata e continua della coscienza nella sua attività di presenza del mondo all’Io e dell’Io al mondo» (Balloni, 2004, 231).
A coniugare il concetto di “adattamento” tra organismo e ambiente con quello di “equilibrio” tra azione e retroazione, secondo uno schema di causalità circolare, interviene l’epistemologia genetica di Piaget, secondo cui «ogni condotta, sia che essa si riveli in un atto estrinsecato all’esterno o che venga interiorizzata nel pensiero, si presenta come un adattamento, per meglio dire, un riadattamento. L’individuo non agisce che quando prova un bisogno: quando, cioè, essendo momentaneamente rotto l’equilibrio fra l’ambiente e l’organismo, l’azione tende a ristabilirlo» (Piaget, 1947, cit. da Caprara & Gennaro, 1994, 398). Nella prospettiva piagetiana, “assimilazione” e “accomodamento” costituiscono le principali modalità cognitive di scambio tra organismo e ambiente: mentre la prima consente l’introiezione del dato esperienziale all’interno di schemi di azione e predizione già padroneggiati dall’individuo, il secondo interviene a colmare situazioni in cui l’assimilazione non appare praticabile, ossia qualora il confronto con i dati dell’esperienza comporti la modificazione e la differenziazione degli schemi preesistenti (Caprara & Gennaro, 1994). Coerentemente con tale impostazione, l’allontanamento volontario potrebbe essere interpretato come una particolare ipotesi di “accomodamento”: si tratterebbe, cioè, dell’adozione di una risposta comportamentale, finalizzata al riadattamento, difforme da quelle emesse di consueto poiché sollecitata da un accadimento destabilizzante che fuoriesce dagli schemi cognitivi ordinari dell’individuo.
Suggestivo appare il concetto di “regressione[23]” (elaborato da Lewin nel contesto delle dinamiche evolutive dell’individuo), con cui si intende il ritorno a modalità comportamentali primitive, a prescindere dalla loro effettiva esistenza nella storia pregressa del soggetto. Tale mutamento, infatti, parrebbe correlare con condotte caratterizzate da riduzione nell’organizzazione e nell’integrazione del comportamento, restrizione dello “spazio di vita”, compromissione della duplice dimensione temporale e realtà-irrealtà[24] (Caprara & Gennaro, 1994): caratteristiche comportamentali di frequente riscontro nell’anamnesi recente di persone per le quali è stato ipotizzato uno scenario di scomparsa volontaria. L’analisi della struttura bidimensionale dell’ambiente psicologico potrebbe fornire spunti rilevanti per la comprensione della condotta di allontanamento: sebbene l’habitat interiorizzato dell’adulto presenti livelli di realtà sufficientemente marcati, è noto come, in particolari condizioni (sogno, fantasticheria, ecc.), possa verificarsi un’oscillazione anomala fra i due livelli – i.e. fra la rappresentazione di aspettative (livello di realtà) e quella di desideri e timori (livello di irrealtà) – tale da comportare la raffigurazione mentale di eventi in cui le due dimensioni si associano e si confondono facilmente. Poiché nell’età adulta «il comportamento presente viene sempre più influenzato da un passato e da un futuro psicologici sempre più distanti» (Lewin, 1972, 151), eventi emotigeni potrebbero assurgere a fattori precipitanti nell’adozione di condotte di evitamento e di fuga, pacifica la relazione fra il giudizio sulle risorse individuali già sperimentate e la qualità delle prestazioni successive in termini di successo/insuccesso (Canestrari & Godino, 2007).
La rappresentazione emotiva di circostanze ambientali dominate da incertezza, principalmente di natura economica, come la mancanza o la perdita di un impiego retribuito – evenienza spesso riscontrabile nelle scomparse volontarie (Rel. 2014) – dimostra di avere un impatto deleterio sulle condizioni individuali, con ripercussioni che sovrastano ampiamente i costi economici diretti dello stato di disoccupazione. La letteratura di merito è concorde nel riferire conseguenze negative sul benessere psico-fisico dei disoccupati, riconducibili all’erosione delle prospettive di vita future e all’indebolimento delle convinzioni di efficacia personale, soprattutto nelle società occidentali dominate da valori materiali, dove l’occupazione riveste il duplice significato di fonte di sostentamento e di valorizzazione personale (Jerusalem & Mittag, 1996). Com’è stato efficacemente osservato «[…] le società moderne stanno andando incontro ad un pericolosissimo, anche se per molti versi comprensibile, fenomeno che mina le fondamenta stesse della struttura sociale, della solidarietà e della collaborazione. Si assiste al consolidarsi di una cultura di tipo pre-genitale, in cui le persone non riescono più a raggiungere la relazione oggettuale adulta e matura, a integrare aspetti opposti, contraddittori e ambivalenti, a configurarsi l’Altro per quello che è, ma unicamente a viverlo e vederlo per quello che serve (la relazione «o-o» invece che «e-e»). Una società che va costruendosi su «relazioni parziali» anziché su «relazioni totali» è una società in cui il meccanismo della scissione tra bene e male, tra buono e cattivo è continuamente posto in essere, per cui solo quelli che «servono» (= i buoni) hanno diritto di cittadinanza e conservano tale diritto finché servono; come non servono più al sistema (= i cattivi), vengono messi da parte […]. A ogni livello di organizzazione (individuale o sociale) i meccanismi scissionali sono al servizio della «pulsione di morte», della distruttività, della violenza auto-od eterodiretta. E la prima forma di morte che ogni persona si può dare e può dare all’Altro è quella della soppressione o della distorsione della comunicazione, dell’ascolto, della comprensione, dell’empatia» (Fornari, 2004, 321-322).
In un simile contesto, in cui le relazioni umane si sviluppano all’interno di strutture sociali governate dall’incertezza, destinate a scomporsi e ricomporsi rapidamente, in maniera ondivaga, fluida e vacillante – una società “liquida”, secondo l’immagine felice e fortunata coniata dal sociologo polacco Bauman (2002) – i confini e i riferimenti dell’individuo si fanno labili, tendenti alla dispersione, fino ad alimentare vere e proprie forme di autoesclusione da parte di soggetti vulnerabili, incapaci di attendere al proprio benessere e di omologarsi ai modelli di condotta dominanti. Allontanamento volontario, dunque, come alienazione da un tessuto sociale percepito in termini frustranti, di inquietante estraneità, esacerbata da accadimenti potenzialmente dannosi o minacciosi per l’individuo stesso. Com’è stato sostenuto da uno dei principali teorici della motivazione, «apparentemente l’organismo è assai unificato nella sua integrazione, quando affronta con successo […] un grave problema o una minaccia o una situazione di emergenza. Ma quando la minaccia è schiacciante o quando l’organismo è troppo debole o incapace di affrontarla, esso tende a disintegrarsi» (Maslow, 2006, 76). Fenomeni dissociativi e assenza di integrazione potrebbero, pertanto, giustificare episodi di scomparsa volontaria apparentemente immotivati, acclarata l’esistenza di comportamenti umani carenti di motivazione, se intesa quale ricerca di gratificazione immediata di bisogni. È, infatti, pacifica in letteratura la sussistenza di condotte di carattere esclusivamente proiettivo o difensivo, aventi, cioè, quale unico scopo quello di impedire un ulteriore danno, minaccia o frustrazione a carico dell’individuo (Maslow, 2006).
Sebbene classificato come volontario, l’allontanamento del soggetto dal contesto di appartenenza dovrebbe sempre costituire oggetto di prudente valutazione, al fine di comprendere le determinanti individuali e situazionali concretamente intervenute nell’attivazione della condotta. Recenti studi hanno, infatti, contribuito a dimostrare come le traiettorie di vita individuali siano plasmate da una rete articolata di influenze socio-strutturali, all’interno di contesti storici dinamici, caratterizzati da opportunità e limiti del tutto peculiari (Elder, 1996). In definitiva, un’accurata indagine dello stato motivazionale del soggetto impone un’analisi multidimensionale, che contempli differenti livelli di complessità, poiché raramente la condotta appare il risultato immediato ed esclusivo di un’unica spinta motivazionale. Nella maggior parte dei casi, essa è sovradeterminata, ovvero l’esito di una concatenazione di motivazioni coesistenti (Deci, 1975), spesso inconscie (Maslow, 2006), che si intrecciano inevitabilmente con le condizioni mutevoli dell’ambiente sociale di riferimento (Elder, 1996).
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[1] Il monitoraggio del fenomeno comporta sia l’aggiornamento del dato numerico dei casi registrati sia l’inquadramento della tipologia di scomparsa, mediante l’indicazione delle motivazioni sottese all’evento critico contenute nella relativa denuncia. [2] A partire dal 2007 è stata introdotta l’obbligatorietà della motivazione nella denuncia di scomparsa. Pertanto, i casi riconducibili a motivazione «non determinata» sono riferiti agli episodi anteriori a tale data. È attualmente in corso un processo di revisione degli eventi critici precedentemente registrati che ha già condotto ad un significativo ridimensionamento del fenomeno (Marvelli, 2012). [3] Rispetto al fenomeno complessivo, la categoria «allontanamento volontario» è preceduta da quella dell’«allontanamento da istituto o comunità», che colleziona 6.948 casi, pari al 23,34% del totale. Benchè l’opzione «non determinata» si attesti come la motivazione numericamente più rappresentata – 16.881 casi, pari al 56,74% degli episodi registrati – il dato deve riferirsi al periodo antecedente all’entrata in vigore dell’obbligatorietà della motivazione nella denuncia di scomparsa. [4] Si fa riferimento alla raccolta di elementi dell’anamnesi personale, familiare, sociale anteriore e contemporanea all’episodio di scomparsa. [5] La lettera della legge sembra legittimare un’interpretazione estensiva della norma, riconoscendo la facoltà di sporgere denuncia anche nelle ipotesi di c.d. allontanamento volontario, purché si ritenga sussistente l’elemento pregiudizievole per la persona (Marvelli, 2013). [6] Fattori di vulnerabilità individuale significativi sembrano essere quelli connessi alla minore età, alla presenza di disturbi psicopatologici con sintomatologia in fase florida, ecc. [7] Al fine di consentire un’efficace contrasto delle ipotesi di scomparsa di natura criminosa, il legislatore fa salve le denunce connesse a reati perseguibili ex officio di cui all’art. 333 c.p.p. (Marvelli, 2013). [8] Si pensi ai contenuti ideativi tipici degli stati depressivi, nei quali «i dati del mondo reale sono percepiti in modo abnorme o distorto tanto da togliere al soggetto la possibilità di liberamente determinarsi». Può accadere che siffatti quadri morbosi vengano dissimulati, rivelandosi molto più severi di quanto stimato dagli stessi familiari (Balloni, 2004, 42). Ovviamente, ciò produce uno “slittamento” della tipologia di scomparsa dalla categoria dell’«allontanamento volontario» a quella dei «possibili disturbi psicologici». [9] Per “egodistonia” si intende l’emissione di risposte individuali nell’ambito di un quadro soggettivo di sofferenza (Fornari, 2004). [10] Dalle condotte autoplastiche si distinguono quelle c.d. alloplastiche o emesse «a spese altrui», caratterizzate da violenza, prevaricazione e manipolazione (Fornari, 2004, 323). [11] Tale concetto richiama la «convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che si incontreranno in modo da raggiungere i risultati prefissati» (Bandura, 1996, 15). [12] Esse si differenzierebbero dall’apprendimento di abilità fisse e precostituite, comportando l’acquisizione di strumenti cognitivi, comportamentali e di regolazione della condotta idonei alla progettazione/esecuzione dell’appropriata sequenza di azioni necessarie alla gestione di circostanze di vita in continuo mutamento (Bandura, 1996). [13] Qualsiasi accadimento dotato di valenza emotiva per l’individuo, sulla base di una valutazione soggettiva della natura favorevole/sfavorevole del medesimo (Legrenzi et al., 2012). [14] Amigdala, insula, corteccia del cingolo e corteccia orbitofrontale (OFC) sono le principali strutture cerebrali coinvolte in una varietà di processi che vanno dal condizionamento alla paura, alle risposte sociali fino all’apprendimento e alla memoria per gli stimoli emotigeni. Considerate strutture neurali la cui interazione consente l’attivazione di condotte adeguate al contesto, costituiscono il c.d. cervello emotivo (LeDoux, 1998). [15] Tecniche di neurovisualizzazione tese all’individuazione delle aree cerebrali attivatesi selettivamente durante lo svolgimento di un compito sperimentale che richiede l’intervento di funzioni mentali note. Basate sulla stima dell’afflusso sanguigno alle aree coinvolte, postulano un approccio c.d. localizzazionista, secondo cui il funzionamento mentale sarebbe accompagnato dall’attivazione di aree cerebrali specifiche (Legrenzi et al., 2012). [16] Ne è un esempio la riduzione della minaccia implicita, attraverso il cambiamento di significato della situazione potenzialmente stressante (Atkinson & Hilgard, 2006). [17] È evidente come tale impostazione contrasti con quella elaborata dai precedenti teorici del Sé, primo fra tutti Adler, che concepivano il Sé quale entità statica e stabile (LeDoux, 2002). [18] Con esso si intende «tutto ciò che è presente al soggetto in un dato momento e che ne determina l’azione, il sentire, il conoscere» (Caprara & Gennaro, 1994, 402). [19] Secondo Lewin, la condotta è funzione della persona (P) e dell’ambiente (A) al momento dato, secondo l’equazione: C = f(P, A). [20] Il termine “omeostasi”, introdotto dal fisiologo francese Bernard (1813-1878), indica il processo generale di mantenimento di un dato equilibrio dell’organismo attraverso un meccanismo di controllo a retroazione (Canestrari & Godino, 2007). [21] Lo “spazio di vita”, includendo la persona e il suo ambiente psicologico, è comprensivo dei bisogni, delle motivazioni, delle mete e degli ideali del soggetto (Caprara & Gennaro, 1994). [22] Nel costrutto lewiniano, il concetto di «valenza» indica il valore positivo o negativo che una regione dell’ambiente psicologico riveste per la persona. La valenza positiva esercita attrazione; viceversa, quella negativa suscita repulsione e implica allontanamento (Caprara & Gennaro, 1994). [23] Trattasi di un mutamento in una direzione opposta rispetto ai mutamenti caratteristici dello sviluppo dell’individuo (Lewin, 1972). [24] Secondo Lewin, l’ambiente psicologico soggettivo possiede una duplice dimensione: quella c.d. temporale, attinente ad attività o situazioni non appartenenti al presente (es. una punizione minacciata), e quella “realtà-irrealtà”, che rimanda alla coesistenza di eventi vissuti come certi, come probabili o unicamente come prodotto della fantasia (Balloni, 2004).