Separazioni conflittuali e minori
Quando i coniugi non riescono ad elaborare la separazione, accade che questi continuino a mantenere, tramite il conflitto, un “legame disperante” (Cigoli et al. 1988). È allora che le funzioni genitoriali sono compromesse, rendendo, di fatto, la genitorialità uno degli ambiti in cui spesso può manifestarsi il conflitto di coppia, atteggiamento che a sua volta ingenera uno dei maggiori fattori di stress per i figli (Lubrano Lavadera, 2011).
Sta infatti, nella presenza, se non anche la persistenza del conflitto, lo sviluppo di relazioni disfunzionali tra genitori e tra genitori e figli, in grado di influenzare l’adattamento a lungo termine dei figli con effetti sia diretti che indiretti sulla loro qualità di vita, sia essa immediata che futura. Tuttavia, è necessario sottolineare che l’adattamento del minore è legato anche ad altri fattori, quali per esempio, all’interazione tra fattori protettivi e fattori di rischio, associati sia con le caratteristiche individuali del bambino (fondamentale è tenere presente l’età del minore), che al supporto del contesto extra-famigliare.
Non è raro che i figli di genitori in ‘lotta’ fra loro inneschino dinamiche “triangolari” disfunzionali, coinvolgendo il bambino in “triadi rigide” (Minuchin, 1974) o “triangoli perversi” (Haley, 1973), dove il minore tutt’altro che soggetto passivo è ‘costretto’ a prendere parte attiva al conflitto genitoriale aderendo a ruoli che, seppur disfunzionali, rappresentano per lui pur sempre una strategia, anzi un tentativo di risolvere i problemi in atto (Cavedon, Magro, 2010).
Tre i principali tipi di triade rigida: la coalizione, la triangolazione e la deviazione.
- Nella coalizione uno dei genitori si allea con un figlio a danno dell’altro genitore (Minuchin, 1974).
- Nella triangolazione ciascun genitore desidera che il figlio parteggi per lui contro l’altro, ma nel momento in cui il figlio si schiera con uno dei genitori, l’altro vede la sua presa di posizione come un tradimento.
- Nella deviazione i genitori in conflitto tra loro, spostano il conflitto sul figlio. Il tipo di triade rigida che si andrà a formare dipenderà dal figlio e dalle strategie che questi cercherà di mettere in atto per “gestire” il conflitto genitoriale (Lubrano Lavadera, 2011).
Nelle separazioni altamente conflittuali è possibile riscontrare un’altra dinamica relazionale disfunzionale in grado di minare il sano adattamento dei minori, la genitorializzazione (Johnston et al., 1987), ovvero l’inversione di ruolo con l’uno o l’altro genitore (Cavedon, Magro, 2010). Questa implica una distorsione soggettiva del rapporto, per cui chi la agisce, si relaziona con il proprio figlio come se costui fosse, a livello fantasmatico, il proprio genitore. Inversione di ruolo, ‘necessaria’ affinché il coniuge/genitore possa soddisfare desideri di possesso, e/o comunque possa sopprimere la sensazione di perdita del partner e la conseguente solitudine legata alla separazione. Non meno importanti in questa dinamica risultano essere e i relativi sensi di colpa e di fallimento dati dalla non realizzabile idealità delle premesse iniziali: premesse e promesse non mantenute, ovviamente, da parte dell’altro, spesso accusato di aver fatto morire l’amore iniziale con i suoi comportamenti inappropriati e malevoli (Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera, 2005; Cavedon, Magro, 2010; Lubrano Lavadera, 2011).
Quando questa forma disfunzionale, ossia la genitorializzazione, persiste nel tempo, rischia di diventare una forma di ‘sfruttamento’ affettivo del figlio, che viene posto in una condizione di “doppio legame” (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2005). In situazioni caratterizzate da un alto livello di conflittualità tra i genitori, una reazione comune nei figli è quella di ‘coalizzarsi’ con un genitore nella sua disputa contro l’altro. Situazione caratterizzata da forte dolore, manifestato spesso con rabbia attraverso comportamenti che, se cronicizzati, rischiano di costituire, per il figlio che la esperisce, delle vere e proprie patologie relazionali quale il fenomeno della Alienazione Parentale (Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera, 2005; Cavedon, Magro, 2010). Alienazione che chiaramente può rappresentare la condizione personale di un figlio e non obbligatoriamente quella di tutti i membri minori della coppia genitoriale: ogni figlio mostra reazioni ed adattamenti diversi all’interno della stessa famiglia.
La Sindrome di Alienazione Parentale
L’espressione “Sindrome di Alienazione Parentale” (Parental Alienation Syndrome – PAS) è stata formulata negli anni Ottanta dallo studioso Richard Gardner (1985), al quale si deve la mole più considerevole di lavoro in merito a questo fenomeno. Sostanzialmente Gardner fa riferimento a quei figli che rifiutano di frequentare il genitore con cui non vivono, a seguito di una programmazione (manipolazione mentale) messa in atto dal genitore “indottrinante”. Il rifiuto non è apparentemente giustificato; ovvero non è riferibile a quei casi in cui il bambino ha subito abusi, violenze o ha vissuto situazioni di reale paura verso quel genitore. Gardner ha individuato otto criteri che caratterizzano la PAS:
- campagna di denigrazione;
- razionalizzazioni deboli, illogiche o superficiali per spiegare la denigrazione;
- mancanza di ambivalenza del bambino: un genitore sarà privo di difetti, mentre l’altro privo di pregi;
- il fenomeno del ‘pensatore indipendente’, per cui il bambino sostiene che quello che dice è frutto del suo pensiero e non è stato influenzato dall’altro genitore;
- appoggio automatico al genitore alienante nel conflitto genitoriale;
- assenza di senso di colpa per la crudeltà e insensibilità verso il genitore alienato;
- utilizzo di scenari presi a prestito: le espressioni verbali utilizzate dal bambino, non corrispondono al suo sviluppo cognitivo;
- estensione dell’ostilità alla famiglia allargata e agli amici del genitore alienato.
Gardner ha individuato anche tre livelli di gravità di questo disturbo: lieve, medio e grave, ai quali corrispondono differenti gradi di intensità.
Alcune ricerche raccomandano cautela nella diagnosi dei comportamenti osservati, tenendo conto dell’origine multifattoriale delle reazioni osservate nei figli (in Camerini et.al., 2014). È necessario evidenziare che i dibattiti scientifici e culturali, che il termine “PAS” ha suscitato, si sono concentrati prevalentemente sulla ‘problematicità’ del termine “sindrome” e non sul riconoscimento dell’esistenza di queste particolari dinamiche relazionali manipolatorie. Infatti, si rilevava che l’utilizzo della definizione “Sindrome”, rispetto alla “Alienazione Parentale” può risultare fuorviante, in quanto la dizione “sindrome” fa riferimento all’esistenza di un complesso di sintomi (Cavedon, Magro, 2010; Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2013), mentre nel caso in questione si ha a che fare con un disfunzionamento o distorsione della relazionale madre-padre e bambino, motivo per cui attualmente diversi esperti, in materia, preferiscono utilizzare il solo termine “Alienazione Parentale”.
Ovviamente la questione della più o meno esatta sua declinazione, non incide e non ci esonera dal riconoscerne la manifestazione, là dove si realizza (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2013). Se così fosse il rischio sarebbe quello di non tener conto di un sistema relazionale disfunzionale e delle dinamiche manipolatorie, messe in atto dal genitore ‘alienante’; situazione che porterebbe a sottostimare il contributo relazionale del genitore “alienato”, ostacolando perciò la giusta valutazione del comportamento del figlio coinvolto, parte comunque attiva, anche se manipolata mentalmente: all’interno del nucleo famigliare ogni componente assume un ruolo e fornisce il proprio contributo. Tanto è vero che nel DSM-5, il fenomeno della Alienazione Parentale risulta “distribuita” all’interno dei Problemi Relazionali (Camerini et. al., 2014), tra le “Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”.
Ulteriori riflessioni cliniche portano ad affrontare il fenomeno prendendo in considerazione anche quelle situazioni in cui il figlio mantiene con il genitore una qualche forma di contatto. Kelly e Johnston (2001) definiscono le dinamiche dell’alienazione come un processo multidimensionale. Gli autori propongono un continuum in cui le relazioni che possono instaurarsi tra genitori e figli dopo la separazione vanno da rapporti molto positivi a molto negativi, sequenza ove l’alienazione è posta al polo estremo di tale continuum. I primi due pattern di relazione: “relazione positiva verso entrambi i genitori, affinità verso un genitore”, si riferiscono a situazioni funzionali, in cui i contatti del figlio sono adeguati con entrambi i genitori. Nel continuum seguono le relazioni di preferenza del figlio verso un genitore: “alleanza verso un genitore e rifiuto di un genitore”, ma che tuttavia non si delinea un rifiuto totale. Al polo estremo del continuum, la situazione più grave, definita dagli autori come alienated child, “figlio alienato” (in Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2009).
Considerare le dinamiche dell’alienazione come processo multidimensionale, significa che possono essere presenti fattori di rischio e fattori di protezione che, influenzando direttamente o indirettamente il comportamento del figlio, portano alla strutturazione del fenomeno della “alienazione”. Secondo il modello proposto da Kelly e Johnston (2001) sono molteplici i fattori correlati, tra cui il comportamento e le credenze dei genitori, le relazioni tra fratelli, la resilienza o la vulnerabilità dei figli, il comportamento delle famiglie di origine, la presenza o meno di nuovi partner (Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A., 2013).
I confini della alienazione
Ci possono essere molti motivi per cui un figlio resiste o si rifiuta di vedere un genitore, non necessariamente si tratta di un comportamento di alienazione (Kelly & Johnston, 2001).
Gulotta (2008) afferma che il vero problema è nello stabilire i confini, né troppo ampi, né troppo ristretti, in maniera da individuare dei criteri che permettano di distinguere tra una preferenza “normale” e una indotta, ovvero tra ciò che è alienazione e ciò che alienazione non è. Altrimenti subentra il rischio di ricorrere in maniera semplicistica a questo fenomeno ogni volta che un figlio manifesta una preferenza per uno dei due genitori.
Molte preferenze sono sane, per esempio quei figli che si alleano temporaneamente con il genitore che percepiscono come più simile a sé; o più debole in quanto pensato come vittima della separazione (Buzzi, 2007), ma riescono a relazionarsi anche con l’altro genitore, soddisfacendo i bisogni di vicinanza e di relazione. Come sostengono Kelly e Johnston (2001), non tutti i bambini sono ugualmente vulnerabili all’alienazione, è possibile trovare differenze che riguardano per esempio l’età e le competenze cognitive, caratteristiche personologiche, supporti esterni, ecc.
Cavedon e Magro (2010) sottolineano l’importanza di effettuare una corretta valutazione del fenomeno, una valutazione complessiva del funzionamento relazionale famigliare, non definendo la situazione aprioristicamente solo perché si manifesta il rifiuto del figlio nei confronti del genitore, seppur persistente.
Indispensabile si fa ottenere informazioni sulla dinamica famigliare e determinare quali siano le relazioni del bambino con ciascun genitore, cercando di distinguere tra una preferenza normale e una indotta, tra una maggiore sintonia per uno dei due genitori e una vicinanza associata a deboli giustificazioni e quindi determinata dall’azione alienante (Cavedon Magro, 2010). Il bambino non riesce ad esprimere nessun sentimento positivo verso il genitore alienato: rifiuta di vederlo, rifiuta di parlargli, fa false accuse, non prova empatia per i suoi sentimenti; all’opposto il genitore alienante è totalmente positivo e il bambino fa fatica a differenziarsi da lui. Si rende perciò necessario esaminare l’intero nucleo familiare, non solo il genitore “alienante” e il bambino, ma anche il genitore alienato, in maniera da capire in quale modo egli contribuisce al disfunzionamento in atto (Gulotta, 2008).
Importante costatare come e se il genitore bersaglio presenti alcune caratteristiche che possono favorire l’instaurarsi dell’alienazione (Cavedon, 2008), se non anche a rinforzare il figlio nel suo rifiuto, come per esempio l’effettivo abbandono del campo da parte del genitore alienato. Allontanamento che, determinando una situazione di assenza, rende ancora più facile la ‘programmazione mentale’, da parte del genitore alienante, in quanto al figlio viene a mancare un possibile confronto tra esame diretto e realtà (Buzzi, 2007). Il genitore alienato spesso ha bisogno di aiuto affinché capisca la necessità di concentrarsi sul figlio, di pensare a lui, piuttosto che ai conflitti con l’ex coniuge. Così come il figlio, in questa “mancanza di ambivalenza”, ha bisogno di modificare pensieri rigidi e distorti rispetto ai genitori: la percezione un genitore come privo di difetti e l’altro di contrappasso privo di pregi.
Come già accennato il fenomeno dell’alienazione non coinvolge solo la triade madre-padre e bambino, ma l’azione alienante può essere agita dall’intera famiglia di origine; così come l’ostilità può essere estesa a tutto il ramo familiare del genitore alienato (Gulotta, Liberatore, 2008), compresi amici e nuovo partner.
Effetti sul minore
Dato per acclarato che la “Alienazione Parentale” non è sinonimo di per sé di un disturbo del minore, essa comunque rappresenta, con i suoi effetti multifattoriali un fattore di rischio evolutivo. Primo fra questi la forte pressione manipolativa, subita dal bambino, volta a far scegliere tra l’uno o l’altro genitore (Cavedon, Magro, 2010). Il costo di questa scelta può essere alto, in termini di senso di colpa, paure di abbandono e perdita del genitore programmante (Buzzi, 2007).
L’alleanza con il genitore alienante, se non interrotta, tenderà a consolidarsi, e il figlio rischierà di rimanere intrappolato in un ruolo che lo porterà ad interiorizzare l’indottrinamento subito dal genitore alienante, in cui sono presenti contenuti svalutanti e accuse menzognere nei confronti dell’altro coniuge, come frutto di un suo pensiero autonomo (“pensatore indipendente”), sviluppando un Falso Sé, ovvero un sé adattivo ma non autentico, basato sulla soddisfazione dei desideri altrui.
Il minore coinvolto in triangolazioni sperimenta forti conflitti di lealtà, intesa come: “la difficoltà a relazionarsi con entrambi i genitori, nel timore che dimostrare affetto per l’uno significhi tradire o ferire l’altro, o deluderne comunque le aspettative” (Della Giustina L., De Renoche I., 2015). L’attribuzione della colpa, poi fa sì che, credendo di essere la causa del conflitto parentale, spesso questi bambini tentano di “risolvere” il conflitto tra gli adulti, con conseguente esperienza di vissuto di fallimento e incapacità (Lubrano Lavadera, 2011). “Gli attuali studi nel settore indicano l’incidenza del conflitto di lealtà come una condizione di rischio verso lo strutturarsi di una problematica relazionale vera e propria, quindi come la fase iniziale di un processo molto più pesante e impegnativo. In questa prospettiva, si ritiene che l’attuazione di opportuni interventi psicosociali e/o giuridici renda possibile modificare – a questo stadio – l’assetto relazionale prima che assuma le connotazioni di una forma di alienazione” (Della Giustina L., De Renoche I., 2015).
Conclusioni
Come già detto in precedenza, il fenomeno della Alienazione Parentale è l’esito estremo del coinvolgimento dei figli nei conflitti genitoriali. Si tratta di situazioni che vengono affrontate principalmente in ambito forense, nelle controversie per l’affidamento dei figli: pertanto la CTU rappresenta un “osservatorio privilegiato” per l’identificazione di dinamiche relazionali disfunzionali. Il mancato riconoscimento tempestivo di tale fenomeno, rischia di consolidare una situazione “pregiudizievole”, a discapito di una continuità delle relazioni parentali con il genitore alienato che andrebbe invece preservata.
Trattasi di un fenomeno che tra i professionisti ha creato discussioni, dibattiti, sostenitori e “negazionisti”. Sicuramente alcuni punti rimangono da affrontare: i termini condivisi da utilizzare per definire questo fenomeno, il relativo inquadramento nosografico e gli interventi più appropriati sia in ambito giudiziario che psicosociale (Camerini et. al., 2014).
Sul piano degli interventi, ogni caso è un caso a sé, per cui è necessario valutare “quel bambino” in “quel contesto” e conseguentemente gli interventi varieranno sulla base di fattori di rischio e di protezione rintracciabili nel minore, nella famiglia, nel contesto ambientale dei soggetti coinvolti, e nelle risorse che il territorio realisticamente offre; è importante un lavoro in sinergia tra l’ambito giuridico, volto a tutela dei diritti e l’ambito psicosociale, in una prospettiva di sostegno e protezione.
Quando la famiglia diviene un campo di battaglia dove tutto di risolve in “vincitori” e “vinti”, i figli allora divengono armi, “strumenti di potere”, nelle mani di genitori che intendono assicurarsi la vittoria. Manipolante le piccole menti dei figli per alienarli dal partner, ormai ‘nemico’ diviene azione ‘conveniente’, necessaria nella dinamica guerresca. È bene comunque tener presente che al di la di ciò che appare, al professionista, non resta che indagare per intercettare la sofferenza che soggiace a tutto questo. Dolore che non produce né “vincitori” né “vinti”, ma solo persone che soffrono. Minori e adulti, nessuno escluso.
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