Gratitudine
Racconta una leggenda araba che, mentre due amici viaggiavano nel deserto, avendo iniziato a discutere, uno dei due diede uno schiaffo all’altro. Quest’ultimo rimase addolorato ma non disse nulla, poi con un ramoscello scrisse sulla sabbia: «Il mio migliore amico oggi mi ha dato uno schiaffo». Giunti poi finalmente presso un’oasi, durante il bagno per rinfrescarsi, l’amico che era stato schiaffeggiato venne salvato dall’altro dal rischio di affogare. Dopo che si fu ripreso, egli incise dunque su una pietra: «Il mio migliore amico oggi mi ha salvato la vita». A quel punto l’altro chiese: «Perché quando ti ho ferito hai scritto sulla sabbia, ed ora lo fai su una pietra?», ed il primo rispose: «Quando qualcuno ci ferisce dobbiamo scriverlo sulla sabbia, affinché i venti del perdono possano cancellarlo. Ma quando qualcuno fa qualcosa di buono per noi, dobbiamo inciderlo sulla pietra, affinché nessun vento possa cancellarlo».
Nel vocabolario della lingua italiana il termine gratitudine indica quel «sentimento di affettuosa riconoscenza» (Devoto-Oli e Garzanti) che si nutre nei confronti di qualcuno che ci ha reso un beneficio, un favore o che ci ha donato qualcosa, nonché «quell’impegno affettivo» (Sabatini-Coletti) verso codesto benefattore, che muove la più piena e sincera disponibilità a contraccambiare.
Contrariamente al materialistico e contrattuale do ut des – scambio stabilito con preciso accordo tra due parti, nel quale l’uno dà all’altro “a patto di” o “affinché” possa ricevere qualcosa in cambio – la gratitudine, senza escludere la memoria di avere un debito con qualcuno, poggia sull’autentica, sentita e spontanea voglia di “restituire” tale debito, donando all’altro un beneficio almeno pari a quello in precedenza ricevuto.
In tal senso ricordiamo San Tommaso D’Aquino, per il quale la gratitudine si compone di tre gradi: il primo consiste nel riconoscere (ut recognoscat) di aver ricevuto un beneficio, il secondo nel lodare e nel ringraziare (ut gratias agat), il terzo nel retribuire, secondo le proprie possibilità e le circostanze più opportune di tempo e luogo (“Summa Theologiae”, Parte II-II, Questione 106).
Dunque la gratitudine agisce a livello cognitivo, affettivo e comportamentale: prendendo atto (cognizione) di aver tratto giovamento da un atto altrui, ci si dispone (affettività) a rendergli grazie, nonché ad adoperarsi (comportamento) a restituire beneficio. E non importa se trascorrerà lungo tempo…poiché «la riconoscenza è la memoria del cuore» (Lao-Tsè), e dunque appena ve ne sarà opportunità, si saprà restituire il debito.
Così essa diviene un collante dei rapporti interpersonali, in senso trascendentale così come riconosciuto nelle principali tradizioni spirituali, quel pilastro sul quale poggia il principio di interdipendenza degli individui tra loro, e tra gli individui e la Divinità: l’esistenza di un individuo, di ogni individuo, è intrinsecamente legata all’esistenza, ovvero all’agire ed all’essere, di ogni altro individuo. La gratitudine è il riconoscimento di tale realtà, ed il costante impegno individuale del suo mantenimento. Ciò genera il benessere personale, sperimentando sentimenti positivi e soddisfacenti quali la generosità e l’altruismo, attraverso l’adozione di comportamenti prosociali efficaci, volti a creare un ambiente sociale favorevole, di cooperazione e condivisione.
Inoltre, il suo senso trascendentale è nel fatto che essa non si specifica unicamente con la materialità del bene ricevuto: è “l’aver salva la vita”, come nel racconto, ma c’è da essere grati anche per “il tempo”, “l’ascolto”, “l’operato” che l’altro ci dona. Per ogni cosa della nostra esistenza, si potrebbe essere grati.
Viceversa l’ingratitudine è il disconoscimento di tale principio, il rifiuto dell’interdipendenza a favore del narcisismo, dell’arroganza e della prepotenza: “a me tutto è dovuto, perché sono IO”, dice il superbo, che non saprà mai assumersi la “responsabilità” (perché anche di questo si tratta) di offrire sincera riconoscenza per ciò che ha ricevuto, finanche possa dire “grazie”.
Così dicendo si può affermare che la gratitudine è un atteggiamento, una disposizione del Sé.
Che, stante la cd. “Psicologia Positiva” – corrente di studio e ricerca sugli indicatori di benessere e qualità della vita, al di là dei tradizionali studi sugli aspetti patologici, che si è diffusa negli ultimi decenni a partire dall’operato dello psicologo Martin E. P. Seligman – è strettamente legata a diversi aspetti del benessere fisico e psicologico: numerosi studi hanno infatti dimostrato che il nutrire gratitudine, al pari di altri sentimenti positivi, ha effetti tangibili in termini di diminuzione della pressione arteriosa, regolarizzazione del ritmo cardiaco, rafforzamento delle difese immunitarie, produzione di ormoni utili quale il DHEA (ormone anti-invecchiamento). A livello psicologico, chiaramente, migliora il tono dell’umore e quindi diminuisce il rischio di disturbi quali depressione ed ansia.
In altre parole, la gratitudine contribuisce a vivere bene, e a sentirsi felici.
A patto di ricordare, nella più consueta quotidianità, che «Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi» (Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupery).