Tolleranza
«Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo»
Stephen G. Tallentyre, pseudonimo di Evelyn Beatrice Hall
Etimologicamente, il sostantivo “tolleranza” deriva dal latino “tolerantia”, derivante a sua volta dal verbo “tòlero”, ovvero sopportare.
Anche in altre lingue, la cui origine non proviene direttamente dal latino, la radice indo-germanica “tol” vuol dire “portare”, per cui il verbo indica il “sopportare”, il “sostenere”, tanto in senso fisico (un peso) quanto, traslato, in senso figurato (il sopportare un’altra persona o un’altra condizione, altra ideologia, etc.).
Il termine può assumere diverse sfumature di significato a seconda del contesto: può far riferimento alla capacità di resistenza fisica al cospetto di condizioni sfavorevoli senza subirne danno (es.: tollerare il freddo, la fatica, l’alcol, il fumo), così come alla capacità di resistenza psicologica o caratteriale al cospetto di soprusi, angherie, imposizioni, stati spiacevoli o dolori vissuti in prima persona o da altri (es.: “non tollero che mi dica cosa fare”; “solo un santo può tollerare tutto questo”); oppure, nel contesto economico-giuridico, indica la possibilità di accogliere deroghe ad elementi di patti già in precedenza regolarizzati (es. tollerare un ritardo sui pagamenti) oppure in merito a scarti o imperfezioni di produzione; o ancora, può far riferimento al riconoscimento ed all’ammissione del diritto altrui di professare e diffondere ideologie, convinzioni e precetti contrari ai propri[1].
Dal nostro punto di vista, è quest’ultimo significato quello cui si farà riferimento in quanto segue, che vorrà contestualizzare il concetto di tolleranza all’ambito della convivenza sociale.
Partiamo da una prima considerazione: concettualmente, la tolleranza sottende alla capacità, sia da parte del singolo che da parte del gruppo sociale, di consentire il coesistere in modo quanto più possibile equilibrato e pacifico di “controparti” che credono e/o vivono in modo diverso dal proprio, pur mantenendosi fedeli ad una propria identità: «Il messaggio di tolleranza verso l’altro non dev’essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità[2]».
Ciò che demarca una lieve differenza è il modo attraverso cui si concretizza il concetto di “coesistenza”.
Da un lato, la tolleranza si può fare semplicemente espressione dell’indulgente sopportazione di altri pensieri e/o stili di vita, in una generica accettazione della diversità (e chiaramente della sua libera espressione) che si fonda su un vago ed indifferente “lasciar indisturbati” gli altri, più che sulla possibilità di stabilire relazioni effettivamente fondate sulla reciprocità.
Dall’altro lato, la tolleranza diviene la democratica accettazione di una diversità che, finanche ritenuta per qualche verso “negativa” a proprio giudizio, viene compresa come di fatto ineliminabile da quello specifico spazio e tempo sociale, pena la sua stessa instabilità. In tal senso, rispetto alla precedente versione rimane la base comune insita nel rispetto del diritto della libera espressione altrui, ma si tutela la co-esistenza in nome del rispetto reciproco e della reciproca volontà di contenere l’antagonistica intolleranza, foriera di scontro e di violenza.
Ecco che, in questo caso, la tolleranza è tutt’altro che un atteggiamento passivo, come il verbo andrebbe a connotare, poiché presuppone non la sola generica sopportazione delle “alternative”, bensì l’attiva accettazione ed ammissione che quanto è diverso è comunque parte di un tutto collettivo, che proprio in ragione della sua pluralità ha motivo di esistere.
«A volte la vera tolleranza richiede una forza straordinaria, che spesso siamo troppo deboli per esercitare[3]».
E si giunge così ad una seconda considerazione: affinché la tolleranza divenga la consapevole e volontaria disposizione a riconoscere legittimità all’alterità, filosoficamente intesa come “altro modo di pensare, essere ed agire” e non viceversa come “non-essere”, si deve dar adito al pensiero che anche l’altro (interlocutore) possa avere ragione. Ecco che, come sosteneva la filosofa Hannah Arendt, fondamentale è il dialogo, o meglio un’interazione dialogica in cui, anche se solo per una volta, l’altro possa intanto essere ascoltato. Tale interazione a sua volta necessita della reciproca capacità di “calzare” i panni dell’altro e, attraverso le sue parole, comprendere i suoi problemi, i suoi bisogni e la sua esperienza. Così dicendo il dialogo diviene un’esperienza educativa, ed il pluralismo accolto non come un pericolo lesivo della propria identità, bensì come consapevole rispetto all’esistenza altrui.
Viepiù, potremmo dire che l’interazione dialogica di cui sopra deve possedere almeno altre due caratteristiche:
- deve essere un “paradosso”: ovvero, secondo ciò che ne è la sua definizione, essere un contenuto o una tesi che può sembrare in contraddizione con l’opinione comune, eppure dimostrarsi valido. Di fatto, fermo restando che il dialogo non assolve allo scopo di giungere ad un giudizio di valore in merito al contenuto avanzato dalle parti che si contrappongono, ma unicamente al fine di creare un incontro, quest’ultimo non obbligatoriamente deve coinvolgere tutti gli attori sociali. Tuttavia, una volta che l’incontro è avvenuto, laddove il gruppo voglia mantenersi coeso, tutti devono accogliere il risultato del dialogo operato da alcuni.
- l’interazione dialogica di cui sopra si è detto deve divenire un processo stabile nel corso del tempo, e nello stesso tempo mutevole al cospetto dei singoli elementi o concetti verso i quali si deve essere di comune accordo tolleranti. In tal senso il filosofo Michael Walzer ha evidenziato come non sia possibile parlare di tolleranza in generale, bensì come concetto specifico in relazione a specifici sistemi sociali e politici. Così avviene da sempre, ed in tutte le società: una volta era la religione professata, poi l’etnia di appartenenza, poi l’orientamento politico, poi il consumo di sostanze stupefacenti, poi ancora l’orientamento sessuale. In definitiva, al di là di ciò di cui si discute, l’importante è discutere.
Tant’è che, come la storia insegna, il fallimento del giusto dialogo, soprattutto sul piano politico e religioso, ha condotto alle più atroci guerre e persecuzioni.
Tempi che sembrano lontani, se si pensa alla Shoah, al genocidio degli Armeni, a quello in Rwanda o ad altre analoghe barbarie che i secoli scorsi hanno dato alla storia, ma che invece non lo sono, al cospetto di alcuni concetti che ancora, purtroppo, non sembrano del tutto tollerati nella nostra cultura contemporanea. Pensiamo, ad esempio, al rispetto delle differenze dell’identità di genere.
Tanto detto, al pensiero tollerate si riconosce un ruolo così fondamentale al fine della serena stabilità sociale e della garanzia dei diritti umani e delle libertà fondamentali tanto che il 16 novembre 1995 gli Stati Membri dell’UNESCO hanno adottato all’unanimità la “Dichiarazione dei Principi sulla Tolleranza” (ed un anno dopo hanno proclamato il 16 novembre “Giornata Internazionale per la Tolleranza”), così da ricordare i principi ispiratori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Nella Dichiarazione dei Principi sulla Tolleranza viene riconosciuto il «rispetto, l’accettazione e l’apprezzamento della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo, dei nostri modi d’espressione e delle nostre maniere di esprimere la nostra qualità di esseri umani. […] La tolleranza è l’armonia della differenza. Non è solo un obbligo di ordine etico; è anche una necessità politica e giuridica. […] La tolleranza non è né concessione né condiscendenza, […] è, prima di tutto, un atteggiamento attivo animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali degli altri[4]».
L’educazione alla tolleranza, al fine di combattere ogni forma di discriminazione, ingiustizia e violenza, deve abbracciare un’ottica della responsabilità e quindi tradursi in un atteggiamento razionale che, attraverso lo scambio ed il dialogo, annienti l’indifferenza e l’ignoranza.
La tolleranza deve essere, prima di tutto, una “finestra” sulla conoscenza, il primo passo per approcciarsi alla diversità: «Il più grande risultato dell’educazione è la tolleranza. Tanto tempo fa, gli uomini combattevano e morivano per le loro credenze, ma ci sono volute ere per insegnare loro un altro tipo di coraggio – il coraggio di riconoscere e rispettare le credenze e la coscienza dei loro fratelli. La tolleranza è il principio primo della comunità, è lo spirito che conserva il meglio del pensiero dell’uomo[5]».
[5] (Helen Keller, Optimism, D.B. Updike, The Merrymount Press, Boston, 1903).