Culti abusanti e difficoltà di svincolo

 In Sotto il Segno del Culto, N. 1 - marzo 2012, Anno 3

Nella società contemporanea, frutto della globalizzazione e di un progresso in cui la sempre maggiore complessità diventa spesso problematicità dei legami e delle relazioni, l’affiliazione a culti definibili, per la loro prassi, abusanti sembra assumere le sembianze di una motivata ricerca e del bisogno di soddisfazione di desideri che non trovano appagamento sufficiente per lenire il vuoto interiore e la confusione che dilaga, variabile costante sia nelle fasce più giovani che in quelle meno giovani.

Fatue rassicurazioni, ingannevoli offerte di comprensione, illusorie proposte di ritrovato benessere e false pratiche di potenziamento della propria autostima, professate sotto forma di accoglienza e comprensione, che troppo spesso si rivelano tentativi estremi di condizionamento mentale, finalizzati a chiudere gli individui all’interno di steccati in cui la consuetudine è manipolare, convincere, suggestionare, plagiare.

“Prigioni invisibili” che, se inizialmente sembrano placare la fame di un nuovo senso di sé e di visibilità divengono con il passare del tempo, una morsa da cui si fa fatica a trovare uno svincolo.

Un culto abusante è una dimensione in cui un gruppo autoritario, capeggiato da una persona, o da un gruppo di persone, ha un potere totalitario e totalizzante e diventa distruttivo quando il leader utilizza attivamente questo potere per ingannare e privare i membri della loro individualità e capacità di scelta autonoma: abusanti, dunque, poiché offendono deliberatamente e in modo continuato la dignità dell’individuo e ed i suoi diritti umani (Santovecchi, 2004).

Nella attuale società, in cui tutto è a portata di mano, dove ogni cosa è progettata, realizzata e diffusa per rassicurare, l’obiettivo da perseguire diventa quello di sedare gli animi tormentati di chi non ha mai trovato una propria dimensione psichica soddisfacente o di chi, al contrario, non trova più spazio per la propria individualità, si vive nella spasmodica ricerca di un luogo in cui potersi sentire una persona riconosciuta nei suoi bisogni primari di accudimento e rassicurata nei tormenti interiori e nei disagi in cui la propria vita si svolge.

Ma quali sono le motivazioni che spingono le persone ad entrare in gruppi che praticano dottrine totalizzanti e totalitarie? Ne hanno sempre consapevolezza? Da dove nasce il bisogno di sentirsi accettato, riconosciuto e integrato in un gruppo che offre, quanto meno a prima vista, ascolto, accoglienza, rassicurazione e spiegazione? Perché, quando ci si accorge di essere stati intrappolati in una prigione invisibile si fa fatica a reagire o a trovare una modalità svincolo che consente di uscire da meccanismi ormai percepiti come abusanti?

Il bisogno di appartenenza e di individualismo, si esprime oggi nella necessità che prende le forme di un nuovo bisogno collettivo, un nuovo tipo di emergenza individuale, prima ancora che sociale, che da semplice ricerca dell’accoglienza si traduce proprio in legami vincolanti e destrutturanti nei quali quella serenità desiderata e, in un primo tempo apparentemente trovata, si trasforma in una prigione da cui sembra impossibile uscire.

In mancanza della felicità, gli uomini si accontentano di evitare l’infelicità[1]

L’analisi della situazione psico-sociale degli ultimi anni[2], porta alla luce con chiarezza una condizione di forte fragilità individuale e collettiva, in cui la sfiducia nel futuro e la precarietà della situazione socio-economica, si manifestano in una emergenza associata ad una serie di comportamenti e atteggiamenti di cinismo e di indifferenza di cui siamo quotidianamente testimoni. Prigionieri di invadenti e invasive influenze mediatiche, ci lasciamo guidare anestetizzati, quasi dominati dalle rappresentazioni della violenza: sia quella della criminalità organizzata sia quella dei piccoli e grandi soprusi che ci lasciano muti e intorpiditi, quasi rassegnati.

La sensazione più evidente è la presenza di una frammentazione di quei valori collettivi e archetipici, di uno sgretolamento di ideali, generato da una sempre maggiore assenza delle figure di riferimento che, a sua volta, crea una inconsistenza dei legami e delle relazioni che si fanno sempre più fragili, confusi, superficiali. Un tempo in cui forte è il peso di fenomeni complessi e trasversali in cui predominano la crisi dell’autorità, il declino dei desideri ed una crescente sregolazione delle pulsioni[3].

Nell’epoca della globalizzazione, gli argini che tenevano insieme la rotta dei riferimenti di collocazione spazio-temporale della vita quotidiana, hanno ceduto. Anche la percezione del tempo e dello spazio si è azzerata, sostituita dalla simultaneità dei fenomeni di cui si è spettatori in ogni parte del mondo: perennemente connessi in rete, abbiamo la possibilità di poter essere in un solo giorno, in continenti diversi rimanendo comodamente seduti a casa nostra.

Da sempre, l’uomo ha fondato i suoi sogni di avvenire sulla convizione che la storia dell’umanità fosse destinata ad una storia di evoluzione e di progresso, in cui l’idea di futuro era proiettata verso un forte ottimismo: una sorta di promessa messianica di una vita migliore in cui sentirsi al sicuro da tutto ciò che era sconosciuto attraverso lo sviluppo delle scienze e della tecnologia (Benasayang. M., Schmit G., 2003). Oggi, disattese quelle aspettative, impera un clima di grande pessimismo in cui prendono il sopravvento ancora molte di quelle paure contro cui, per secoli, ci si è impegnati a lottare. Viviamo il primato dell’impotenza e della disgregazione, dell’incertezza e dell’inquietudine, della spasmodica ricerca di sicurezza e accoglienza, che allo stesso tempo contribuisce a sviluppare legami che si temono e che spaventano.

Il filo conduttore nell’affiliazione a gruppi totalitari, dunque sembra essere la ricerca del recupero di se stessi, di un rifugio, di un “luogo sicuro”, di appartenenza e di protezione, di rassicurazione e sostegno, generata soprattutto da una profonda crisi di identità e della costruzione e gestione dei legami.

Attaccamento, identità e costruzione dei legami

La radice etimologica del verbo dipendere, proviene dal latino “dependere” cioè “essere appeso, attaccato”; una radice affine anche al significato di “provenire, prendere origine, essere in necessaria relazione”. Nel nostro percorso verso l’autonomia e l’individuazione, la prima matrice fondamentale da considerare è la relazione umana che di per sé non è mai unilaterale. Lo sviluppo psichico di ogni individuo, infatti, si origina all’interno di una relazione diadica, quella tra madre e bambino, che è di per sé un sistema intersoggettivo primario in cui si organizzano i processi mentali e in cui conseguentemente avviene la selezione degli affetti e relative risposte comportamentali.

Nel nostro percorso di crescita ed evoluzione, fondamentale è il bisogno e la ricerca di risonanza empatica, di essere cioè compresi e di soddisfare i propri bisogni di affetto e condivisione, di vicinanza e presenza di un’altra persona che svolge la principale funzione di sostegno nello sviluppo e nella costruzione di un proprio nucleo interiore solido. La strutturazione della propria identità, dunque, è un percorso che si compie attraverso la costruzione del legame ed è strettamente correlata al bisogno ed alla capacità di rapporto con l’altro, in cui è sempre presente una dipendenza relazionale reciproca.

Se un’indipendenza autentica poggia sulla capacità di dipendere, è il legame di attaccamento ad essere essenziale per uno sviluppo armonico della personalità, poiché ha in sé le tipiche caratteristiche dei legami affettivi, come la ricerca di attenzione e di interesse, ma è anche emotivamente significativo, attiva il desiderio di contatto e vicinanza della figura di riferimento, così come provoca uno stato di ansia dovuto alla separazione dalla persona a cui è legato. La sua funzione, dunque, è quella di costruire una “base sicura”: in caso di disagio o di pericolo, la figura di attaccamento è quella in cui rifugiarsi, in cui sentirsi protetto e al sicuro, rasserenato e aiutato.

Accade però che non sempre si riesce a sperimentare un attaccamento sicuro, a percepire cioè la figura di attaccamento come quella di cui fidarsi e da cui poter ricevere sostegno, aiuto e conforto incondizionato. Dal modo in cui si è trattati da piccoli, emergono rappresentazioni mentali del Sé e delle persone significative del mondo circostante, quindi, la sicurezza o l’insicurezza dell’attaccamento trova la propria origine nelle esperienze quotidiane sperimentate nell’infanzia, grazie alle quali si costruiscono una serie di rappresentazioni che diverranno dei “filtri” attraverso cui percepire e interpretare gli eventi (Modelli Operativi Interni) che, la persona utilizzerà nel corso della sua vita per prevedere le situazioni future e per organizzare di conseguenza il suo comportamento (Bowlby, 1969, 1979).

Lo sviluppo psicologico ed emotivo di ogni individuo, quindi, si origina all’interno delle prime fondamentali relazioni ed è proprio all’interno di esse che si organizzano i processi mentali e la selezione degli affetti attraverso quelli sperimentati nella relazione. La presenza di “sintonizzazione affettiva” con la condivisione di stati emotivi affettivi positivi del bambino, permette un armonico sviluppo dando vita ad un mondo relazionale e cognitivo in cui sperimentare sé stesso come un essere che sente, pensa, desidera nel rispetto dei suoi bisogni e desideri, con la possibilità di sviluppare il suo vero Sé.

Nell’analisi delle storie di vita o di racconti delle vittime di culti abusanti, che hanno trovato il coraggio e la forza di uscirne, risulta importante la costruzione narrativa delle loro identità e la ri-costruzione delle proprie storie di vita. Gli elementi importanti per la comprensione della affiliazione sembrano essere proprio le modalità sperimentate della costruzione dei legami e la tipologia di relazione affettivo-emotiva sperimentata. Modelli operativi interiorizzati di tipo insicuro ad esempio, si rintracciano in esperienze di accudimento negative, trascuranti o ancora peggio traumatizzanti, in cui mancano strategie adeguate al riconoscimento e alla regolazione di stati affettivi positivi, rassicuranti e appaganti, con la possibilità di sviluppare dei tratti di personalità dipendenti o condizioni psicopatologiche in cui predomina la dimensione interiore di vuoto affettivo.

In sostanza, dunque, la qualità dei rapporti che l’individuo sperimenta nel proprio ambiente, la modalità di accudimento e di cura, il sostegno e l’appoggio ricevuti soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, contribuiscono ad un sano e armonico sviluppo della propria identità, un senso di continuità dell’essere che è il fondamento della forza dell’Io e la costruzione di un senso di sé coeso e unitario (Winnicott, 1965/70).

Nuove fragilità: vuoto emotivo, solitudine, esasperata ricerca di vicinanza empatica

Il disagio psichico nella società post-moderna, risulta molto sbilanciato nel versante delle patologie dell’identità e della propria immagine. Ciò che emerge chiaramente è la presenza diffusa di una molteplicità di disturbi connotati da una grande quota di ansia e angoscia, da una fragilità narcisistica che configura tipologie di personalità organizzate intorno al mantenimento della propria autostima tramite la continua conferma che proviene dall’esterno, con una eccessiva sensibilità alle critiche o alle approvazioni (La Barbera D., Guarneri M., Ferraro L., 2009).

Il bisogno di apparire, di essere sempre al centro dell’attenzione, la cultura dell’easy, cioè del “facile e subito” si organizzano intorno ad una costante ricerca di sostegno all’autostima. L’assenza del cargiver e della sua autorevolezza, sembra essere il nucleo centrale delle nuove fragilità che prendono corpo da un vuoto emotivo in cui spesso un’Io già fragile e poco strutturato, cerca disperatamente un rifugio in cui potersi nutrire e rifocillare. Un’assenza che si trasforma in una vera e propria mancanza o, ancora più spesso, in una sorta di con-fusione di ruoli che sembrano posizionati al limite di un confine mai definito, mai netto; una relazione, dunque, priva di riscontri certi e di autorevolezza, di stabile supporto alimentata dall’assenza di una base sicura in grado di restituire quel senso di solida presenza.

La ricerca di risonanza empatica, dura tutta la vita. La si trova nelle relazioni e nei legami che nel suo corso si sperimentano. Può capitare a volte di imbattersi in relazioni che almeno inizialmente sembrano soddisfare quelle esigenze di accoglienza emotiva, ma che troppo spesso si scoprono “perverse”, ossia relazioni sbilanciate in cui si sperimenta una forma di prevaricazione del proprio essere, della libertà di espressione e, nei casi più gravi, delle proprie facoltà di giudizio e di critica. Ciò che viene ad essere intaccato e, in secondo momento destrutturato, è proprio quel già fragile senso di identità, che ancor prima di accorgersi, conduce in una prigione invisibile, intrappolati in vincoli la cui radice è l’esasperata ricerca di sostegno ed un estremo bisogno di essere riconosciuti come persone degne di essere amate. Nasce così, una dipendenza dal gruppo poiché quest’ultimo trasmette un senso di appartenenza e consolida l’illusione che il proprio bisogno rimosso di amore, comprensione e sicurezza nutrito un tempo da bambini, possa essere ancora soddisfatto, nella fattispecie del gruppo (Miller A., 2008).

Spesso, le persone che cadono preda di simili meccanismi di manipolazione e assoggettamento, sono individui che nel loro percorso di vita, hanno sperimentato difficili passaggi, una grande sofferenza che li ha portati a strutturare una visione negativa di sé stessi, una grande vulnerabilità psicologica ed emotivo-affettiva, affamati di attenzione, ascolto e di amore incondizionato. É proprio su quella ferita “ nascosta”, interiore che il reclutatore di simili culti, si inserisce e su cui avanza, con pazienza, vicinanza, ascolto, ma anche con carisma e tecnica mirata ad individuare il punto nevralgico della sofferenza altrui e la fessura aperta per toccare nel profondo la ferita.

La ferita in sé, infatti, è un evento che lacera la continuità, divide, scinde, separa ciò che prima era unito. In senso psicologico è qualcosa che frammenta, nella persona, la percezione della continuità di sé, impedisce di sentire ciò che si è nel mondo. La ferita psicologica, in genere, produce sgomento e riduce al minimo l’organizzazione delle nostre difese. Una ferita non riconosciuta, in cui cioè non esiste la sua percezione e consapevolezza, in cui quindi, vi è l’incapacità a rappresentarsela, viene proiettata inconsapevolmente nella relazione. Quando, dunque, l’altro innesca dei processi che consentono di trovare, o convincono la vittima di aver trovato in quella relazione lo spazio e il posto in cui potersi fermare e lenire quella lesione, e quindi ricevere il beneficio dell’accoglienza, si sviluppa un forte sentimento di dipendenza.

Quando, dunque, nella relazione la persona trova esattamente ciò che colma quel vuoto a cui non sa dare nome né volto, si sviluppa una dipendenza: chiunque saprà avvicinarsi e toccare quella ferita diventando di fatto un cargiver, verrà vissuto e sentito dalla vittima come un custode che si prende cura della sua sofferenza restituendogli un senso di sé, di integrità, una base sicura.

L’abilità del reclutatore, consiste proprio nella capacità di toccare quella sofferenza muta ed inascoltata, quella parte più fragile, e, fino ad allora, segretamente nascosta. Scoperto il punto crioscopico in cui inserirsi, il gruppo offrirà alla persona scelta tutto ciò che non ha mai avuto, avvolgendola di attenzioni e ascolto, offrendo la condivisione di valori rappresentati come quelli giusti, i soli che le consentiranno di diventare una persona più sicura di sé, esprimere le sue vere risorse e diventare maggiormente autonoma.

Comincia dunque un lavoro pianificato e costante sulla già fragile personalità della vittima, attraverso l’isolamento dal suo mondo circostante e dai precedenti punti di riferimento, rimpiazzati da una costante presenza “del nuovo verbo”: un’iniziale tutoraggio al percorso di destrutturazione della personalità, un vero e proprio accompagnamento che, quasi sempre diventa ad insaputa della vittima, un accompagnamento “coatto”, in cui l’obiettivo finale è la costruzione di una nuova identità ad immagine del gruppo, che si fonda sul timore e sulla insicurezza. La vittima finisce con lo sperimentare un bisogno di appartenenza, che nel tempo si trasforma in una vera e propria dipendenza. Un passaggio da un “fuori”, in cui si è sperimentata solitudine, inadeguatezza, incomprensione ad un “dentro” in cui la vita precedente perde il suo significato rimpiazzato da un nuovo sistema di valori nelle relazioni: una vera e propria sostituzione della vecchia visione del mondo con una nuova.

Su questa modifica dei codici di lettura del mondo, si basa la difficoltà di svincolo sia da meccanismi di gruppo che da individui abusanti. Operata in modo strutturato e programmato, riesce a trasformare un semplice contatto iniziale in un vero e proprio legame che incatena la persona, poiché lavora soprattutto su gli aspetti emotivi, morali e sociali del vincolo. Quando il lavoro di destrutturazione e di manipolazione mentale ha raggiunto la radice della identità personale modificando la struttura stessa della persona, la difficoltà di svincolo, diventa maggiore.

Questa nuova forma di attaccamento invece di contribuire alla crescita umana e spirituale dell’individuo, lo rende ancora più dipendente e incapace di fare scelte libere, dando vita a sua volta ad una sorta di automatismo: così come la persona non è stata sufficientemente capace di trasformare la dipendenza pregressa dalle figure parentali e rielaborare la propria modalità di relazionarsi, allo stesso modo, replicando lo stesso meccanismo, non riesce a staccarsi da quel gruppo che ora fornisce quello stesso nutrimento al proprio bisogno di una base sicura. Una forma particolare di dipendenza, dunque, che origina da un forte attaccamento emotivo: una relazione che rivitalizza nella vittima la speranza infantile di ricevere quelle attenzioni e cure che non ricorda più di aver ricevuto dalla madre. Un meccanismo intrusivo attraverso il quale viene neutralizzata anche la capacità di critica e di giudizio, che produce un disorientamento in cui la bussola che si ha a disposizione riconduce perennemente all’interno dello schema comportamentale abusante con la lancetta indirizzata sempre verso la figura carismatica del leader, il quale si avvale anche del supporto del gruppo.

La dipendenza della persona e la sua passività, e dunque la difficoltà di svincolo, sarebbero riconducibili in parte alla funzione del leader carismatico, del tipo di influenza interpersonale molto forte che egli esercita e dell’ambiente sociale in cui la relazione si verifica (Zablocki, 1988). Non vanno comunque sottovalutate a mio avviso, le caratteristiche individuali delle persone coinvolte, poiché, è proprio attraverso i modelli appresi nell’infanzia, e sperimentati nel corso della vita adulta, che ognuno impara il proprio modo di essere in relazione con l’altro. E se la funzione del leader carismatico ostacola la possibilità di svincolo della persona, massimizzandone “i costi di uscita”[4], va considerata attentamente anche la tipologia di attaccamento e dipendenza che quella persona ha sperimentato nelle sue esperienze relazionali infantili.

Ad ogni modo, quando l’appartenenza ad un qualsiasi gruppo diventa gregarismo e dipendenza, quando la fiducia nel leader degenera in ipocritica, quando la creatività personale, la fantasia e il gioco sono mortificate in stereotipia e ripetitività; quando il simbolismo decade in feticismo, il rito in rituale esoterico per iniziati, la solidarietà e la coesione interna si cristallizzano in chiusura e distacco dall’esterno, paura del mondo e impossibilità di crescere, si sviluppano modalità perverse e abusanti di relazione (Aletti, 1999).

Più in generale, concludendo, possiamo dire che quando una relazione o l’appartenenza a gruppi o dottrine impedisce la capacità di crescere, diventa incapacità di sentirsi bene con se stessi e con il mondo esterno, senza quella costante e soffocante presenza di credenze e rituali, la relazione diventa perversa. Il legame, in tal senso si trasforma in un vero e proprio vincolo abusante poiché fagocita la persona all’interno di un rapporto che la incatena al sistema di convinzioni e di regole, del contesto abusante impedendone l’evoluzione e la possibilità di poter sviluppare la propria identità personale sia come totalità permanente sia in divenire dall’altro.

Una relazione, sia essa con un’altra persona o con un gruppo di persone, può definirsi “sana” nella misura in cui il legame che si stabilisce, offre la possibilità di sciogliere anche solo alcuni di quei nodi che fanno parte della nostra esperienza di vita liberandoci da quei vincoli a cui si è ancorati sin dall’infanzia.

Il percorso verso l’individuazione e la capacità di autonomia psichica, dunque, è un viaggio difficile e non privo di sofferenza, una strada da compiersi anche attraverso l’elaborazione e la consapevolezza della propria storia e delle ferite, inconsce o rimosse, subìte. Una strada da percorrere verso la rielaborazione di quel mondo perduto di desideri repressi e sentimenti rimossi sperimentati nell’infanzia.

 

Bibliografia

Aletti M., Rossi G., Ricerca di sé e trascendenza, Centro Scientifico Editore, Torino, 1999.

Benasayang M., Schmit G., (2003), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004.

Bowlby J., (1988), Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano, 1989.

Freud S., (1930), Il disagio della civiltà in Opere vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978.

La Barbera D., Guarneri M., Ferraro L., Il disagio psichico nella post-modernità. Configurazioni di personalità e aspetti psicopatologici, Edizioni Scientifiche Magi, Roma, 2009.

Miller A., Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

Santovecchi P., I culti distruttivi e la manipolazione mentale, Dehoniane, Bologna, 2004.

Zablocki B.D., Exit Cost Analysis: A New Approach to the Scientific Study of Brainwashing in Nova Religio: The journal of Alternative and emergent Religions, 1(2), 267-271.

 


[1] Freud S., (1930), Il disagio della civiltà in Opere vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978.

[2] 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2010, CENSIS.

[3] 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2011, CENSIS.

[4] Esistono diversi tipi di costi di uscita: di tipo economico, affettivo relazionale e cognitivo. Cfr Zablocki B.D., Exit Cost Analysis: A New Approach to the Scientific Study of Brainwashing in Nova Religio: The journal of Alternative and emergent Religions, 1(2), 267-271.

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